L’Ilva fa un altro morto – Chi controlla i controllori?

Ilva Ue Taranto

TARANTO – L’ennesimo tragico incidente mortale all’Ilva raffigura una situazione al limite della fantascienza. In cui tutti e nessuno sembrano essere responsabili dell’accaduto né sappiano esattamente in che condizioni si lavori e si viva all’interno del più grande siderurgico europeo. Sono le 4.40 di notte, Taranto è come sempre avvolta nel sonno cullata dal suo mare. Al di là del ponte di Pietra, affacciata sul rione Tamburi, l’Ilva, il più grande siderurgico d’Europa a ciclo integrale che non dorme mai, produce il suo acciaio. In quei minuti, nel reparto cokeria dell’area a caldo due operai, Ciro Moccia e Antonio Liddi, stanno lavorando sul piano di carico della batteria numero 9, ferma per i lavori di rifacimento previsti dall’AIA rilasciata all’Ilva lo scorso 26 ottobre dal ministero dell’Ambiente, per ripristinare un pezzo di binario del macchinario che carica le batterie.

Il reparto è il cuore dell’area a caldo sequestrata il 26 luglio dalla magistratura tarantina, ma rientrata in possesso dell’azienda lo scorso 4 dicembre grazie al decreto legge 207. Area tutt’ora sotto sequestro virtuale, in quanto l’Ilva non ha mai presentato ricorso in Cassazione, i cui termini sono ampiamente scaduti: uno dei tanti paradossi della vicenda Ilva. All’improvviso, la lamiera messa in orizzontale e poggiata su un piano di calpestio sulla quale operano i due lavoratori, cede di schianto: tra i due lavoratori e il terreno, ci sono quasi 15 metri di vuoto. Lo schianto è tremendo e non lascia scampo al 42enne Ciro Moccia, originario di Napoli e dipendente Ilva dal 2002, un omaccione di oltre 100 kg, operaio esperto, che lascia una moglie e due figlie di 16 e 12 anni. E’ andata meglio al 46enne Antonio Liddi, dipendente della ditta MR che opera nell’appalto Ilva: fratture in diverse parti del corpo giudicate guaribili in 40 giorni.

Poche ore dopo, nella tarda serata, la procura di Taranto iscrive nel registro degli indagati otto: l’ipotesi di reato é omicidio colposo. Moccia è il terzo lavoratore a perdere la vita negli ultimi sei mesi nel siderurgico tarantino. Una media preoccupante ed inaccettabile. L’incidente di ieri ha ricordato a molti Silvio Murri, operaio che morì cadendo da un’impalcatura nel 2004, che un anno fa ha visto chiudersi in Cassazione il processo penale a carico dei responsabili con una pena alquanto blanda. Prima di Moccia, lo scorso 30 ottobre perse la vita il 29enne Claudio Marsella, locomotorista e dipendente diretto del siderurgico, deceduto mentre era al lavoro nell’area portuale gestita dall’azienda: la tragedia avvenne al V sporgente dello scalo ionico. Il corpo senza vita fu ritrovato ai piedi di un locomotore nei pressi di uno dei moli interni al recinto dello stabilimento: il 29enne lavorava nel reparto MOF (Movimento ferroviario) e rimase schiacciato durante le operazioni di aggancio della motrice ai vagoni, riportando gravissime lesioni interne al torace e la frattura del femore.

Il 28 novembre invece, a causa del violento tornado che si abbatté su porto, Ilva e Comune di Statte, a perdere la vita fu il 29enne Francesco Zaccaria. Il gruista era al lavoro all’interno di una cabina di una gru che fu letteralmente sradicata dal vento finendo in mare ad oltre 30 metri di profondità, dove fu recuperata dai sommozzatori qualche giorno dopo, con all’interno il corpo senza vita del giovane Zaccaria. Era dal dicembre 2008 che non si verificavano incidenti mortali all’Ilva: a perdere la vita fu un operaio polacco, Jan Zygmunt Paurovicz, di 54 anni, dipendente di una ditta dell’appalto, che precipitò da un ponteggio allestito nell’altoforno 4. Con quella di Ciro Moccia, salgono a 47 le morti degli operai avvenute all’interno del siderurgico dal 1993 ad oggi: un triste record di cui nessuno va orgoglioso.

Le tante, troppe morti bianche all’interno del siderurgico tarantino, sono avvenute per le cause più diverse: molti gli operai deceduti in seguito a rovinose cadute da ponteggi di impianti, ad esplosioni di macchinari, al crollo di gru o perché colpiti, nel corso delle fasi delle varie lavorazioni, da pesanti bramme o schegge di materiali; altri sono invece morti per aver inalato gas nel corso di lavori di manutenzione. Molto più difficile, invece, quantificare gli incidenti che nel corso degli anni, hanno causato il ferimento o l’ustione di centinaia di operai. In molti però, ricordano ancora quanto accadde all’operaio tarantino Saverio Paracolli, di 45 anni, morto il 10 aprile 2004 dopo sette giorni di agonia per un incidente avvenuto nel reparto Tubificio 1: Paracolli rimase incastrato fra un tubo e un’apparecchiatura. Curiosità interessante e che deve far riflettere i tanti responsabili oggettivi e morali di quanto accaduto: l’Ilva nel 2011 ha ottenuto per il secondo anno consecutivo il “Premio Missione Sicurezza”. Mentre in un convegno di studi “Capitale Umano d’Impresa, organizzazione e flessibilità” fu assegnato allo stabilimento di Taranto il Premio “Aldo Fabris” per le politiche aziendali in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Come nel caso dell’incidente mortale in cui perse la vita il 29 enne Claudio Marsella nel reparto MOF dell’Ilva lo scorso 30 ottobre, anche questa volta si è dovuto attendere il morto per far venire fuori l’ennesima amara verità della realtà del siderurgico. Tutto ad un tratto infatti, i sindacati si accorgono che forse all’interno dell’Ilva, negli ultimi tempi, è venuta meno la sicurezza sul luogo di lavoro. “Non vorremmo che, in conseguenza della complessa situazione in cui versa l’azienda, venisse praticata una politica di risparmio tale da coinvolgere anche manutenzione e sicurezza”, dicono. A sentirli parlare, sembra che all’interno dell’Ilva loro non siano mai entrati. E che non sappiano cosa accada ai lavoratori ed in quali condizioni quest’ultimi sono chiamati a lavorare.

Vorremmo ricordare loro che oltre ai delegati di fabbrica, dentro l’Ilva sono presenti 12 RLS, i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, e le RLSA, i rappresentanti dei lavoratori che si occupano di verificare che ci sia un buon livello di sicurezza ambientale. Lo stesso fanno le istituzioni locali: ognuna di esse invoca quella più in alto in grado affinché controlli e verifichi il rispetto delle leggi vigenti. Uno scaricabarile inaccettabile, soprattutto perché pronunciato insieme a parole di cordoglio quanto mai di circostanza. Com’è possibile che nel più grande siderurgico d’Europa, in un’area in cui la produzione è attualmente ferma per lavori di rifacimento e messa in sicurezza degli impianti, si lascino lavorare in piena notte degli operai sospesi in aria senza prima essersi assicurati l’assenza di pericoli per l’incolumità di quest’ultimi?

Com’è possibile sentir parlare di ponteggi pericolanti e di lamiere poste lì quasi per caso? Chi doveva essere lì a controllare? Perché gli operai denunciano che è saltata la gestione interna dell’Ilva? E i tecnici ISPRA e il Garante sono a conoscenza di queste situazioni? Cos’è quest’aria di smobilitazione che si respira in queste ore? E soprattutto: com’è possibile che il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante non abbia trovato il tempo di dire almeno due parole sull’accaduto? Qualcuno dovrà rispondere anche di questo.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 01.03.2013)


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