Ilva, lo scontro finale è vicino

TARANTO – Lo abbiamo anticipato in tempi non sospetti. E dopo quanto accaduto ieri ne siamo ancora più convinti: la vicenda Ilva, presto o tardi, finirà all’attenzione della Consulta della Corte Costituzionale. E’ inevitabile che ciò accada: da un lato c’è la Procura di Taranto che procede imperterrita sulla sua strada nella fase di attuazione del sequestro dell’area a caldo, con l’ultimatum impartito all’Ilva di avviare la procedura di spegnimento degli impianti entro e non oltre dopodomani. Dall’altro abbiamo un’azienda che continua a tirare troppo la corda, giocando sui tempi di attuazione dei provvedimenti impartiti dai custodi giudiziari e dalla Procura. D’altronde, dichiarare come avvenuto ieri che l’altoforno 5 può essere fermato soltanto a partire dal 1 luglio del 2015 (tra quasi tre anni), se non è l’ennesima sfida alla magistratura, poco ci manca.

Un tentativo, peraltro maldestro, perché oramai anche le pietre sanno che l’AFO 5 è il cuore pulsante dell’Ilva in termini di produzione e da esso dipendono anche gli stabilimenti di Genova, Novi Ligure e Racconigi. Oltre che l’intera filiera dell’industria metalmeccanica italiana, partendo da Fincantieri per arrivare alla Fiat. Per non parlare della fermata dell’AFO 1 che si vuol passare come adempimento alla volontà dei custodi, quando poi è la stessa Ilva a mettere nero su bianco come in realtà la sua fermata fosse ampiamente prevista e programmata da tempo. Ma il brivido della giornata, ce lo procura il presidente del Cda dell’Ilva, Bruno Ferrante: che da Milano annuncia l’esubero di 942 lavoratori a causa della fermata dell’AFO 1 e delle batterie 5 e 6 della cokeria che lo alimentano. Fortuna vuole che quella che è sembrata subito essere la minaccia di un imminente e nuovo “ricatto occupazionale”, sia per ora rimasta tale. Visto che lo stesso Ferrante ha assicurato che la fermata dell’impianto non avrà ricadute occupazionali, visto che il personale sarà ricollocato in altre aree del siderurgico, così come peraltro indicato nell’ordinanza del GIP Todisco e nei provvedimenti dei custodi.

Lo scontro, dunque, arriverà in alto, molto in alto. Anche perché il Gruppo Riva sa di avere dalla sua parte il governo, che in più di un’occasione ha dichiarato che farà di tutto per impedire la fermata degli impianti: politicamente parlando, una legittimazione per l’Ilva a continuare a produrre svicolando e rinviando nel tempo le prescrizioni notificate nell’ultimo mese da parte dei custodi giudiziari. Il governo, attraverso il ministero dell’Ambiente, è pronto a giocarsi le sue carte: proprio oggi infatti, il gruppo Istruttore della commissione AIA (Autorizzazione integrata ambientale) darà il proprio parere sugli impianti dell’Ilva. I tecnici entro giovedì 11 (guarda caso il giorno in cui scade l’ultimatum della Procura) dovranno esprimersi sulla bozza redatta dal gruppo di lavoro a fine settembre. Si tratta in effetti di una relazione formale prima dell’ultimo passaggio che completa la procedura: la Conferenza dei servizi, fissata per il 16 ottobre, giorno in cui il documento dovrebbe avere il via libera definitivo. E dalle prime indiscrezioni, pare proprio che all’interno della nuova AIA sia presente l’indicazione che prevede la fermata dell’AFO 5 entro il 2015.

Così come viene “intimato” all’azienda di non andare al di là delle 9 milioni di tonnellate annue di produzione, quando nel 2011 l’Ilva, di tonnellate di acciaio, ne ha prodotte 8,5. Inoltre, la relazione è unicamente incentrata sulle emissioni e la qualità dell’aria: per il risanamento delle discariche interne allo stabilimento, la gestione dei rifiuti e la protezione della qualità ambientale delle acque servirà invece un successivo provvedimento. Appare dunque certo che la Procura, dopo aver preso visione della nuova AIA, non cambierà di una virgola le sue intenzioni: che a partire dall’ordinanza firmata dal GIP Patrizia Todisco lo scorso 25 luglio, portano sempre alla stessa conclusione, con un unico obiettivo e punto d’arrivo. La fermata di tutti quegli impianti che producono le emissioni diffuse e fuggitive che avvelenano da decenni questa città, senza alcuna facoltà d’uso in termini di produzione.

Una volta fermati e messi in sicurezza, toccherà all’azienda procedere al lungo e costoso risanamento degli stessi: in caso contrario, la chiusura dell’Ilva con la conseguente dipartita della produzione dell’acciaio italiano, sarà imputabile unicamente alla volontà del Gruppo Riva. Che altrove, vedi Genova, ha già bloccato i lavori del reparto “zinacatura 4” che conclude l’iter dell’accordo di programma del 2005 e che va a completare l’area della lavorazione a freddo. Segnale inequivocabile di come, qualora non riuscisse ad ottenere (ogni mezzo è lecito) la proroga per continuare ad utilizzare l’AFO 5 anche per una presunta produzione ai minimi livelli, il disimpegno del Gruppo Riva sarebbe l’inevitabile conseguenza di chi ha sin qui seguito un’unica e spietata logica: quella del profitto fine a se stesso, a scapito di chiunque sia capitato a giro di qualche chilometro dall’area industriale. Dal primo operaio all’ultimo degli allevatori, dal primo dei cittadini all’ultima pecora, sono stati tutti sacrificati sull’altare della logica del mercato e dell’imprenditoria italiana, rimasta ferma ad una concezione economica da rivoluzione industriale di fine ‘800. Sperare che i sigilli della Procura restassero “virtuali” a vita, è stata una mossa utopistica oltre che inutile.

E’ indubbio che il Gruppo Riva si giocherà fino in fondo tutte le sue carte, nella speranza di poter continuare a produrre acciaio sino alla fine del ciclo vitale delle batterie dei forni dell’area cokeria (non più di 20 anni): ma difficilmente riuscirà nell’intento. Per questo, quando i portoni si saranno tutti inevitabilmente chiusi, la cessione dell’azienda sarà l’unico modo per continuare ad inseguire, seppur al ribasso, la logica del profitto. Del resto, la Procura andrà avanti, il processo si farà, le altre inchieste (a partire da “Ambiente svenduto”) andranno avanti, i dati sanitari saranno continuamente aggiornati (vedi Registro Tumori e studio Sentieri di prossima pubblicazione) e le tante verità che mancano all’appello verranno a galla una dietro l’altra. E’ per questo che, ancora una volta, rilanciamo il nostro appello a pensare e costruire sin da subito quelle alternative economiche che rappresentano l’unica ancora di salvezza per il nostro territorio e la città di Taranto. Perché il cerino, anche se a molti non pare vero e reale, è in mano nostra. E nella nostra mano rischia di rimanere. Lasciandoci ancora una volta in dono nient’altro che cenere.

Gianmario Leone (TarantoOggi – 9 ottobre 2012)

 

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