Ilva, Confindustria su sequestro Afo 2: “Risanare non è chiudere”

Riceviamo e pubblichiamo nota stampa di Confindustria Taranto.

Lo stabilimento Ilva visto dai tetti del quartiere Tamburi, 19 settembre 2013.ANSA / CIRO FUSCORisanare un’azienda diventa impossibile se l’unica risoluzione da adottare rimane la sua chiusura. Recuperare il valore dell’impresa -come bene su cui costruire la dignità, il lavoro ed il benessere dei cittadini- non è immaginabile se a fermarsi è la sua stessa produzione. La vicenda Ilva,   gli avvenimenti susseguitisi negli ultimi giorni e gli scenari che a breve si potrebbero aprire per l’azienda e per la città, impongono alcune riflessioni, che, pur senza mettere in discussione scelte ed azioni – magistratura in primis – crediamo siano pressoché obbligate, perché in gioco è, ancora una volta, il futuro di un intero sistema.

C’è infatti una differenza sostanziale fra questo delicatissimo passaggio ed altri che la città ha vissuto nella sua storia recente: il sequestro dell’Afo2, infatti, una volta convalidato, decreterebbe il cosiddetto punto di “non ritorno” oltre il quale ogni dibattito non avrebbe più motivo di essere. La fermata dell’altoforno oggetto di sequestro, infatti, porrebbe l’azienda in una condizione di impossibilità – con il solo Afo4 in funzione – nel far proseguire la marcia degli impianti.

E’ fondamentale, pertanto, guardare ai segnali che in questi giorni convulsi, prima ancora che dalla società civile, dalle istituzioni e dalla politica, ci arrivano da una voce autorevole. L’enciclica di Papa Francesco, che più di qualcuno ha ribattezzato “green” proprio per le tematiche di carattere etico ed ambientale che contiene, rilancia fortemente il valore dell’impresa come volano di crescita sociale e civile, e quindi preziosa opportunità per avvalorare e dimostrare che una crescita sostenibile non solo è possibile, ma è obbligata se si vuole davvero salvaguardare il futuro delle attuali e delle prossime generazioni.

Le valutazioni, anche molteplici, di questa “vision”, che sicuramente si presta a letture diversificate a seconda del cosiddetto bicchiere mezzo vuoto (o mezzo pieno), meritano tutte, sicuramente, uguale attenzione. Ma certo è che nessun tipo di crescita, né sostenibile né di altro genere, si può ipotizzare se si prospetta come soluzione la fermata di impianti indispensabili per il prosieguo dell’attività dello stabilimento. Fondamentali sono, inoltre, gli impegni finora assunti e le misure finora adottate per far sì che il centro siderurgico possa avviare seriamente il suo cammino verso il risanamento. Lo confermano gli adempimenti a cui in tal senso l’azienda ha – peraltro celermente – ottemperato dopo le indicazioni dello Spesal, nonché quel corposo dossier che i tecnici della Paul Wurth metteranno a breve nelle mani della Procura, al fine di scongiurare la convalida del sequestro dell’altoforno.

Il terribile incidente dell’8 giugno scorso insegna purtroppo che non si può e non si deve abbassare la guardia sui sistemi di sicurezza; allo stesso tempo, però, non può innescare un penalizzante atteggiamento di rinuncia rispetto agli obiettivi di ambientalizzazione che si stanno faticosamente portando avanti per coniugare ambiente e lavoro. A tutti sono note le risorse ingenti che in tal senso il governo centrale sta mettendo a disposizione; altrettanto evidente è l’attenzione che dalla capitale si continua a registrare con un’assiduità di carattere eccezionale rispetto alla vicenda, in poco più di due anni oggetto di ben sette provvedimenti legislativi.

Occorre buon senso, e l’auspicio è che possa arrivare dal territorio prima ancora che dagli osservatori esterni, che pure sulla vicenda si sono espressi esplicitando le forti preoccupazioni per il futuro immediato dell’azienda. Accogliamo in tal senso, quindi, anche le recenti dichiarazioni, rese ad un organo di stampa, del sindaco Stefano, che sulla questione si è espresso riconoscendo la forte vocazione industriale del territorio, da rilanciare in chiave ecocompatibile. Sappiamo che si può: il processo avviato non va interrotto, le speranze, l’impegno, la fatica   dei tanti che lavorano dentro e fuori dalla fabbrica non possono essere vanificati in nome di una rinuncia che ha il sapore di una resa incondizionata.

Certo, la strada è ancora tutta in salita: l’Ilva (e non parliamo più dell’Ilva privata ma dell’Ilva “amministrata”, resa pubblica proprio per favorire un deciso cambiamento di rotta) dovrà dimostrare, attraverso lo strumento della verifica e delle buone pratiche, di aver imboccato la strada giusta; il territorio dovrà guardare con obiettività a quanto sta accadendo in questo particolarissimo momento della sua storia (le molteplici emergenze, da Tct all’Arsenale, da Teleperformance alle vertenze aziendali che interessano Taranto e la sua provincia) e scegliere, ancora una volta col buon senso, quale strada imboccare. Da una parte, c’è la rinuncia ad un obiettivo ambizioso ma possibile. Dall’altra, il cambiamento da attivare attraverso la continuità, il lavoro, la salvaguardia di un immenso patrimonio della città la cui nuova storia – industriale, sociale, solidale – è in realtà ancora tutta da scrivere.

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