Ilva, Bondi congelato per 48 ore

ILVA NUOVATARANTO – E’ scaduto a mezzanotte il mandato di commissario dell’Ilva di Enrico Bondi. Ma, come previsto, il governo ha deciso di congelare ogni decisione, rimandando la discussione sull’Ilva al prossimo Consiglio dei Ministri (pare che ieri il premier Renzi abbia parlato del siderurgico tarantino nella riunione della direzione del Pd), che sarà quasi certamente convocato per domani.

Anche ieri, tante le voci sul futuro del commissario e sui suoi papabili sostituti: ieri è stato il turno dell’ex ad dell’Enel Fulvio Conti, mentre nelle 24 ore precedenti si era fatto il nome di Massimo Tononi, presidente di Borsa Italiana ed ex Goldman Sachs. Giorni addietro era stato invece il turno dell’attuale commissario della Lucchini di Piombino, Pietro Nardi: nemmeno fossimo di fronte alla scelta del prossimo allenatore della Nazionale.

E nel gioco del toto-commissario non potevano mancare i sindacati (stendiamo un velo pietoso sulle costituzioni di parti civile da parte di quest’ultimi, purtroppo la dignità è oramai un concetto sempre più astratto), che ovviamente propendono per la riconferma di Bondi, non fosse altro perché la proposta del piano industriale presentata da quest’ultimo (anche se gli stessi sindacati sanno perfettamente che quel piano è, di fatto, irrealizzabile) non prevede quel taglio della produzione e delle unità lavorative a cui l’Ilva andrebbe sicuramente incontro con l’entrata in scena di una nuova cordata.

A tal proposito, è il caso di fare qualche altra precisazione, visto che come al solito anche su questo argomento si è iniziato ad affermare di tutto di più negli ultimi giorni. Il gruppo Arvedi (unico concorrente dell’Ilva Spa nel Nord) fa capo alla Finarvedi Spa, ha un fatturato annuo intorno ai 2 miliardi di euro ed occupa 2600 persone nelle quattro aziende del Nord Italia. Lavora con forni elettrici ed ha una capacità produttiva di 4 milioni di tonnellate di acciai laminati, tubi inox e acciai speciali. Specialità della casa la tecnologia ‘endless strip’, capace di sfornare nastri super sottili a ciclo continuo con spessori inferiori a frazioni di millimetro, business blindato da oltre 400 brevetti e considerato da molti come la nuova frontiera del settore.

Pillola storica: in pochi sanno o ricordano che l’8 dicembre del 1989, Giovanni Arvedi acquistò dall’Ilva per una decina di miliardi la Tubimar, un’azienda di Ancona che produceva tubi in acciaio al carbonio. Tubimar che ha concluso il suo ciclo già a fine anni ’90, le cui aree presenti nel porto di Ancora sono state bonificate dall’amianto nel 2011 e dove sui tetti dei capannoni è stato installato un impianto fotovoltaico da 3.200 kw.  Il gruppo Marcegaglia invece, raggiunge un fatturato annuo di quasi 4 miliardi di euro, ed opera con 7000 dipendenti impiegati in 43 stabilimenti sparsi per il mondo. E’ specializzata in tubi saldati ed opera nel campo della lavorazione e della trasformazione dell’acciaio speciale.

A proposito del gruppo Marcegaglia, è bene chiarire un paio di cose. Primo, non è affatto vero che la scelta di chiudere il sito produttivo di pannelli fotovoltaici a Taranto sia collegato all’interesse per l’Ilva (semplicemente l’investimento del 2011 non ha portato i frutti sperati). Semmai, è esattamente il contrario. Da tempo infatti, il gruppo Marcegaglia ha deciso di lanciarsi nel mercato dell’acciaio (specializzandosi sui tubi saldati) ed è fortemente interessato a che l’Ilva non chiuda, in quanto figura tra i principali clienti del siderurgico tarantino: Marcegaglia acquista dall’Ilva quasi 1,5 milioni di tonnellate di coils all’anno su un fabbisogno complessivo di 4,5 milioni.

E’ chiaro come il sole dunque, che Arvedi e Marcegaglia siano fortemente interessati al futuro dell’Ilva per motivi diversi: il primo per conquistare qualche fetta di mercato in più, il secondo per non perdere una parte importante dei propri rifornimenti, che altrimenti dovrebbe acquistare all’estero. Nello stesso tempo però, è altrettanto chiaro che i due gruppi non hanno alcuna possibilità per acquisire la maggioranza dell’azioni dell’Ilva Spa. Voci provenienti dal mondo finanziario parlano infatti di una quota di azioni da acquistare in tandem, che non supererebbe il 30-40%. Il gruppo Riva potrebbe accontentarsi in tal caso di un 20-30%.

Mentre il restante 40% dovrebbe essere acquisito dall’Arcelor Mittal. Il gruppo indiano, acquisendo la maggioranza delle azioni dell’Ilva Spa, non eliminerebbe soltanto un concorrente dal mercato europeo. Ma acquisirebbe un nuovo cliente come Marcegaglia e “controllerebbe” il mercato italiano attraverso Arvedi e il gruppo Riva, che al Nord ricordiamo ha oltre 18 aziende che lavorano per la “Riva Acciaio”. Ma c’è un “però” non di poco conto. Perché l’Ilva è fornitore di diverse aziende automobilistiche come la Fiat, BMW e Peugeot. La quota di ArcelorMittal nella fornitura di laminati per l’industria automobilistica è molto vicina al 40%, ed infatti è già suonato il campanello d’allarme del settore attività della concorrenza della Commissione europea.

Per garantire infatti una concorrenza sana ed efficace, l’Ue prevede che un’azienda debba possedere quote inferiori al 20%, o tra il 30 e 40% in un determinato settore di mercato. La Commissione europea però, costringendo ArcelorMittal a ridurre il suo ruolo nella produzione di acciaio per l’industria automobilistica, potrebbe offrire al gruppo indiano un assist notevole, aiutandolo nel disfarsi di aziende divenute inutili nel corso del tempo (specialmente in Belgio, Romania ed in altri paesi orientali).

Di una situazione del genere il gruppo indiano ne ha approfittato anni addietro negli Stati Uniti. E nello stesso tempo, riducendo la produzione dell’Ilva, Arcelor Mittal potrebbe avvantaggiare alcuni suoi impianti produttivi attualmente non a pieno regime, come ad esempio quello francese di Fos-sur-Mer che è di proprietà della “ArcelorMittal Europe”. Tutto questo, ovviamente, soltanto per dare un quadro più chiaro ed esatto della situazione e dei tanti interessi in campo. Ma la nostra idea di sempre non cambia: l’Ilva è destinata a ridurre la sua capacità produttiva e le sue unità lavorative. Sino alla sua definitiva chiusura.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 05.06.2014)

 

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