L’Ilva e l’idea folle della nazionalizzazione. Con i risparmi degli italiani

ILVA: IN FABBRICA S'INCONTRANO FERRANTE-SINDACATITARANTO – Dopo l’audizione in commissione Ambiente alla Camera di venerdì del commissario Enrico Bondi, è ripresa la gara a chi la spara più grossa in merito al futuro del siderurgico. In particolar modo sul come salvare la produzione ed allo stesso tempo trovare i soldi per effettuare i lavori prescritti dall’AIA rilasciata nell’agosto del 2011, riesaminata nell’ottobre 2012 ed ora rimodulata nell’attuazione della tempistica dal piano ambientale redatto dai tre esperti nominati lo scorso 14 luglio dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, il quale dovrà approvare con decreto apposito il documento finale entro il prossimo 28 febbraio (come previsto dal decreto legge del 3 dicembre scorso sulle emergenze ambientali ed industriali contenente alcune norme per la “Terra dei fuochi”, all’interno del quale una parte rilevante riguarda le “Disposizioni urgenti per la tutela dell’ambiente, del lavoro e per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale”, ovvero l’Ilva).

Il problema di sempre, come abbiamo avuto modo di scrivere in tutti questi anni, è che le risorse finanziarie per effettuare i lavori di risanamento sugli impianti dell’area a caldo del siderurgico, non ci sono mai stati. Ieri, perché il gruppo Riva si è ben guardato dall’investire su un sito industriale vecchio e prossimo alla rottamazione (preferendo “esportare” i capitali guadagnati nei paradisi fiscali offshore); oggi, perché l’Ilva Spa è un’azienda commissariata sottratta ad una proprietà (Riva FIRE) che ha scorporato per tempo il suo impero economico, svuotando le casse di un’azienda che oggi può soltanto produrre (meno rispetto al passato perché il mercato non richiede più come un tempo e perché alcuni impianti sono fermi, come 6 batterie su 10 del reparto cokeria) e vendere, utilizzando i guadagni per acquistare materie prime, pagare il costo dell’energia e della manutenzione ordinaria degli impianti sempre più esosa, ed erogare i pagamenti per gli stipendi, gli straordinari ed i famosi premi per i soliti noti. Di fatto, l’Ilva potrebbe andare avanti così sino a quando i competitor mondiali non invaderanno del tutto anche il mercato europeo ed italiano.

Peccato che con il suo ciclo integrale h24, l’Ilva continui ad inquinare, procurando gli effetti sull’ambiente e sulla salute umana di cui tutti oramai conoscono i drammatici risvolti. E siccome non è pensabile continuare a schivare l’attività della magistratura a furia di decreti legge, nell’audizione di venerdì scorso il commissario Bondi, un toscanaccio 84enne cresciuto sotto la guida di Enrico Cuccia che ben conosce l’economia di questo paese, ha candidamente ammesso che l’unica soluzione possibile per far sì che Ilva possa effettuare i lavori di risanamento previsti dall’AIA, sia quella di un immediato ed ingente aumento di capitale che consentirebbe all’azienda di disporre delle risorse necessarie per dare il via libera agli investimenti già programmati per il 2014 nell’ordine di 6-700 milioni di euro. Se queste risorse non saranno trovate in tempi celeri, i lavori non si faranno. Il che scriverebbe la parola fine sulla storia del più grande siderurgico d’Europa.

Certo, una via ci sarebbe, ha lasciato intendere non senza una punta di sarcasmo Bondi. Chiedere ai Riva di finanziare l’aumento di capitale, specialmente dopo che il gruppo lombardo ha ottenuto dalla Cassazione l’annullamento del sequestro preventivo per equivalente di 8,1 miliardi di euro disposto dal gip Todisco lo scorso 24 maggio nei confronti della Riva FIRE (Finanziaria Industriale Riva Emilio) e poi esteso nello scorso settembre anche alla Riva Acciaio ed alle controllate Ilva (Inse Cilindri, Celestri, Ilva Servizi Marittimi, Taranto Energia). Ma l’ipotesi che Riva investa oggi nell’Ilva ciò che non ha mai investito dal ’95 al 2012, è pressoché inesistente. Specie a fronte del fatto che l’azienda, essendo commissariata sino al 2016, sarebbe comunque al di fuori del controllo del gruppo lombardo.

Dunque, dove andare a reperire le risorse per finanziare il piano ambientale? In molti guardano ai 2 miliardi di euro sequestrati dalla Procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta che vede il gruppo Riva indagato per frode fiscale (truffa ai danni dello Stato e trasferimento fraudolento di valori e appropriazione indebita ai danni dei soci di minoranza) e appropriazione indebita ai danni dei soci di minoranza, per aver fatto rientrare in Italia in maniera illecita capitali grazie allo scudo fiscale del 2009. Tra l’altro, forse in previsione della sentenza della Cassazione e della futura richiesta di Bondi, nell’ultimo decreto il governo ha sì previsto che il titolare dell’impresa (Riva) metta a disposizione del commissario le risorse necessarie per svolgere i lavori previsti; ma nello stesso tempo ha specificato che “ove il titolare dell’impresa o socio di maggioranza non metta a disposizione del commissario straordinario, in tutto o in parte, le somme necessarie, al commissario straordinario sono trasferite, su sua richiesta, le somme sottoposte a sequestro penale in relazione a procedimenti penali a carico del titolare dell’impresa o del socio di maggioranza, diversi da quelli per reati ambientali o connessi all’attuazione dell’Aia”. Inoltre, il testo del decreto prevede che in caso di eventuale proscioglimento nel processo che verrà, il gruppo Riva non potrà richiedere indietro le somme sequestrate, in quanto quelle impiegate per l’attuazione dell’AIA “non saranno comunque restituibili”. Ma su questo punto specifico, i legali di Riva sono pronti a ricorrere nuovamente, nel caso in cui il testo del decreto venga commutato in legge così com’è stato scritto. E secondo il nostro modesto parere, vinceranno a mani basse: visto che è impensabile sottrarre quei 2 miliardi ai Riva, qualora il gruppo lombardo venga definitivamente prosciolto nel processo che verrà.

Ecco perché nelle ultime ore in molti, in particolar modo i sindacati, sono tornati a chiedere a gran voce la nazionalizzazione dell’Ilva. Un’idea semplicemente mostruosa. Fuori da ogni logica di dignità e serietà. Nell’audizione di venerdì, Bondi è stato chiarissimo: “A gennaio non so se saremo ancora in grado di mantenere questa situazione: c’è bisogno di un provvedimento veloce altrimenti in gennaio faticheremo a fare tutto quello che dobbiamo fare”. Quel provvedimento veloce a cui fa riferimento il commissario, trova ragion d’essere in un emendamento depositato nel corso della conversione in legge del decreto del 4 giugno sul commissariamento dell’Ilva, poi svanito nel nulla.

Si trattava di un articolo aggiuntivo – il 2-bis – il quale disponeva che il commissario possa richiedere al Fondo strategico italiano spa, istituito presso la Cassa Depositi e Prestiti, “in caso di comprovata impossibilità di disporre delle risorse finanziarie della società proprietaria dello stabilimento di interesse strategico nazionale le somme necessarie all’esecuzione delle disposizioni previste dall’AIA. In cambio, come corrispettivo di queste somme sono conferite al Fondo quote azionarie della società proprietaria dello stabilimento che possono eventualmente essere riacquistate dalla società”. Come riportato dopo l’audizione di venerdì infatti, l’unica strada alternativa per un eventuale aumento di capitale è proprio la cessione di quote azionarie dell’Ilva Spa ad altri investitori interessati a subentrare alla gestione del siderurgico.

L’ipotesi di un coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti, lo avanzammo in tempi non sospetti: era l’autunno del 2012. Ma forse è il caso di ribadire cos’è la Cdp. Società per azioni finanziaria italiana, partecipata per il 70% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il 30% da una sessantina di fondazioni bancarie che influenzano non poco ogni tipo di decisione, è dotata di due rami di azienda, di cui uno relativo al “finanziamento di opere, di impianti, di reti e di dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici e alle bonifiche”.

Tanto per rendere l’idea della disponibilità economica di questo ente, basti pensare che lo scorso 20 marzo è stato approvato l’esercizio di bilancio 2012 con un utile in crescita del 77% a 2.853 milioni di euro. Per far fronte alle sue attività, la Cdp provvede all’assunzione di finanziamenti e all’emissione di titoli, in particolare obbligazioni. Nel corso degli anni ha messo le mani su aziende importanti, tra cui società quotate in Borsa ­ da Eni a Terna, passando per Snam ­ le cui azioni sono state trasferite alla Cassa dal ministero del Tesoro. E’ infatti codesto ministero a detenere oltre l’80% delle azioni. Le famiglie italiane posseggono 3.300 miliardi di euro in titoli finanziari.

Di questi, oltre 230 miliardi di euro sono stati depositati da 24 milioni di cittadini italiani su un libretto di risparmio oppure investiti nei Buoni fruttiferi postali. Tutti questi soldi alimentano la provvista di spesa di Cassa depositi e prestiti, che oggi è divisa in tre rami principali: Fondi italiani per le infrastrutture, Cassa depositi e prestiti Investimenti e Fondo strategico italiano, i cui interessi spaziano tra autostrade e aeroporti, edilizia privata sociale e mutui per l’acquisto della prima casa, banda larga e fibra ottica o reti per la distribuzione del gas, acquedotti e inceneritori o centri commerciali. E che secondo alcune menti eccellentissime oggi dovrebbero guardare anche al risanamento dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto invece che, magari, finanziare un serio progetto di riconversione economica e riqualificazione ambientale di questo territorio.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 30.12.2013)

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