All’Ilva nulla è cambiato. E la diossina si libra nell’aria
TARANTO – Sono le 14.30 dello scorso 8 agosto. Da appena una settimana è avvenuta la conversione in legge del decreto 61 “Nuove disposizioni urgenti a tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro in imprese di carattere strategico nazionale”, ribattezzato ‘salva Ilva bis’. In molti sono in ferie, fuori città o al mare, altri sono in attesa delle meritate vacanze. Non tutti. Come l’Ilva, il più grande siderurgico d’Europa il cui ciclo integrale non si ferma mai. E come due eco-sentinelle che, come altre centinaia di volte, si sono appostate all’esterno del perimetro dell’acciaieria, per vedere da vicino cosa realmente accade all’interno e negli impianti dell’area a caldo.
Precisamente, siamo all’esterno dell’area Ghisa dell’impianto di agglomerazione dello stabilimento, dove avviene l’attività di sinterizzazione (impianto di primaria ed essenziale importanza per il processo produttivo dell’acciaio). In pratica, siamo alle “pendici” del maestoso camino E312. Dalla cui sommità, almeno in quei minuti, non si vede alcune emissione di veleni. Una situazione che si ripete sempre uguale da molto tempo: su per già da oltre un anno, specie sino a quando è ben presente la luce del giorno. Di notte, invece, la situazione cambia. Come sempre, in peggio. Come si ricorderà, il 27 dicembre 2011, Regione, ARPA Puglia, Comune, Provincia di Taranto e Ilva, annunciarono ai quattro venti che il problema “diossina” a Taranto era oramai stato risolto.
Del resto, le “appena” quattro campagne di monitoraggio effettuate da ARPA Puglia nel 2011 sulle emissioni del camino E312, dettero come esito finale un clamoroso 0,3, al di sotto del limite previsto dalla legge regionale anti-diossina n.44 del 2008, ovvero i famosissimi 0,4 ng TEQ/Nm3 (stabilito dalla direttiva europea UNI EN 1948:2006 sulle rilevazioni delle emissioni tossiche e che riprende quanto sottoscritto dalle nazioni europee nel protocollo di Aarhus del 2004). Quel giorno infatti, spuntò fuori dal cilindro una quarta ed imprevista campagna di rilevazione effettuata nei giorni 12-13-14 del mese di dicembre, che regalò l’incredibile risultato di 0,055 ng ITE/Nmc, il più basso di sempre dal 2007.
Dato che sommato a quelli delle precedenti tre campagne (0,685 a febbraio, 0,704 a maggio e 0,112 a novembre), certificava un 0,389 ng ITE/Nmc di diossine e furani nei fumi delle emissioni del camino E312 (previa sottrazione dell’incertezza pari al 35%”, come prevede anche la norma UNI EN 1948:2006 dell’Unione Europea), che consentirono all’Ilva di rientrare entro il limite dello 0,4 imposto dalla legge regionale. Anche nel 2012 (18-19-20 luglio, 15-16-17 novembre e 13-14-15 dicembre) sono state effettuate le tre campagne minime previste dall’art.3 della legge regionale (quello che a marzo del 2009 venne “rivisto” con un comma da istituzioni e sindacati per impedire il campionamento in continuo previsto nella prima stesura della legge del dicembre 2008), le quali hanno dato un esito che ha dell’incredibile: 0,180 ng ITE/Nmc! Come ben sapete, abbiamo sempre contestato, negli anni, la validità scientifica di quei dati: non in quanto tali (altrimenti apriti cielo e pure ARPA Puglia prendendo esempio da qualcuno ci denuncerà all’Ordine dei Giornalisti), ma appunto perché “grezzi”, in quanto basati su un impianto a ciclo continuo h24 che lavora 365 giorni l’anno. E non poche settimane, pochi giorni o poche ore all’anno.
Le campagne di monitoraggio delle emissioni di diossine e furani dall’E312, si basano infatti su 9/12 giorni all’anno, di 6-8 ore ciascuna: quindi vengono monitorate tra le 72 e le 96 ore. Inoltre, è rimasto un mistero il perché, una volta “risolto” il problema diossina, non sia stato cancellato il divieto di pascolo emanato nel febbraio del 2010 dalla Regione Puglia nel raggio di 20 km dall’area industriale: ma anche su questo torneremo nei prossimi giorni. Sia come sia, tornando allo scorso 8 agosto, la scena che si presenta alle due eco-sentinelle è identica a quella che documentammo e denunciammo il 5 luglio del 2012.
Per capire di cosa stiamo parlando, riportiamo uno stralcio della relazione che i periti chimici produssero nel gennaio del 2012: “l’esame dei profili dei congeneri PCDD/PCDF e PCBdl analizzati e riscontrati nelle matrici suolo, aria ambiente e bioindicatori prelevati nelle aree urbane, agricole e i terreni adiacenti l’insediamento Ilva, hanno evidenziato un’elevata correlazione tra i profili riscontrati nei campioni prelevati presso lo stabilimento di Ilva Spa, area agglomerazione, quali quelli delle polveri abbattute dagli elettrofiltri ESP e MEEP e quelle prelevate nei campionamenti ambientali effettuati in prossimità del reparto, risultando invece meno evidente il contributo di quanto emesso in atmosfera dall’emissione E312 AGL2, in quanto caratterizzato da profili di congeneri PCDD/PCDF diversi”.
All’epoca, in molti rimasero interdetti. Questa la domanda delle domande: ma non era dal camino E312 che usciva tutta la diossina riscontrata negli ultimi anni? Non è quel camino che ha avvelenato la nostra aria, la nostra terra, i nostri animali? Queste foto (così come quelle pubblicate il 5 luglio 2012) dimostrano che i periti chimici avevano ragione. Nella loro relazione infatti essi scrissero che “i risultati portano pertanto a ritenere che i terreni agricoli indagati, utilizzati per il pascolo ed altre attività agricole, siti in aree adiacenti allo stabilimento Ilva spa, risultano contaminati da PCDD/PCDF e PCBdl emessi dall’attività di sinterizzazione presente nello stabilimento”. Per dichiarare subito dopo che “pur nella cautela che i limiti della conoscenza scientifica e sperimentale in questo caso pongono, si ritiene ragionevole affermare una correlazione preferenziale dei contaminanti riscontrati nei tessuti e negli organi animali esaminati con i profili di congeneri di PCDD/PCDF riscontrati nelle emissioni diffuse da ILVA spa”.
Nelle foto che pubblichiamo oggi, così come in quelle dello scorso anno, si riscontra chiaramente ciò che i periti scrissero nella loro relazione. Ovvero una fuoriuscita continua di inquinanti dagli elettrofiltri posti alla base dell’area di agglomerazione prodotti dall’attività di sinterizzazione dell’Ilva. Che si disperdono non solo nell’area circostante: perché da lì iniziano un viaggio che nessuno è in grado di dire dove terminerà. Sono quelle che vedete nella foto, tra le tante altre, le famose emissioni diffuse e fuggitive che a Taranto costituiscono la vera criticità dell’impianto di agglomerazione. D’altronde, anche i periti confermarono ciò che avviene ogni giorno, da anni, nell’Ilva: “numerose e varie sono le emissioni non convogliate incontrollate che si originano dai diversi impianti dello stabilimento Ilva nella sua attività produttiva”.
Oggi come allora, dunque, nulla è cambiato. E’ passato oltre un anno dal sequestro preventivo dell’area a caldo del 26 luglio 2012. E’ stata redatta e concessa all’Ilva una “nuova” AIA. Sono state approvate da due governi diversi ben due leggi per garantire la “continuità produttiva di un sito strategico per l’economia nazionale”. Ci sono state due ispezioni dei tecnici ISPRA. Ci sono state le diffide. Gli arresti degli “uomini” di Riva. Eppure, nulla è cambiato. Semplicemente perché nulla è stato fatto. O ciò che è stato fatto, non basta. E chissà se mai sarà fatto tutto ciò che è stato prescritto all’azienda.
Per quanto riguarda l’agglomerato, infatti, le BAT prevedono “l’adozione di sistemi di captazione delle emissioni di polveri che possono generarsi durante la miscelazione dei materiali e/o frantumazione del coke, con relativa depolverazione mediante elettrofiltro; l’adozione precipitatori elettrostatici tecnologicamente avanzati quali gli elettrofiltri MEEP (moving electrode electrostatic precipitator), dotati di una serie di placche captatrici mobili e che vengono continuativamente pulite meccanicamente; ciò permette di rimuovere efficacemente lo strato di polvere che si deposita sulla superficie delle placche di captazione, migliorando in tal modo l’effetto del campo elettrico e quindi l’efficienza di abbattimento; l’iniezione a monte degli elettrofiltri di polvere di carbone e/o eventuali altri additivi per ridurre anche le emissioni di PCDD/F (diossine); recupero del calore sensibile dei fumi derivanti dal raffreddamento agglomerato (il calore recuperato può essere utilizzato, a seconda delle necessità e possibilità impiantistiche, per la produzione di vapore, oppure per il preriscaldo dell’aria comburente nel fornetto di accensione, oppure per il preriscaldo dei materiali); adozione di sistemi di captazione delle emissioni di polveri che possono generarsi durante la frantumazione e vagliatura dell’agglomerato con relativa depolverazione mediante elettrofiltro”. Tutte queste indicazioni sono state recepite nell’AIA nelle prescrizioni che vanno dalla n.52 alla n.62. Il cui termine di applicazione scadeva tra l’ottobre del 2012 e il 27 aprile di quest’anno.
Dato interessante: per alcune di esse, il completamento è previsto “entro e non oltre l’8 marzo 2016”. Ennesima conferma di come era stato ampiamente previsto anche e soprattutto dal Ministero dell’Ambiente, il mancato rispetto delle applicazioni AIA da parte dell’Ilva entro il dicembre 2015. Ed il bello è che quel documento è stato firmato da tutte le nostre istituzioni. Attendiamo dunque con fiducia la prossima ispezione dei tecnici ISPRA e ARPA, prevista entro questo mese, per sapere a che punto sono i lavori. Anche se, a dirla tutta, bisognerà prima vedere cosa scriveranno nel loro “piano di lavoro”, i tre esperti del comitato nominato dal ministero dell’Ambiente per modificare nuovamente la tempistica dell’attuazione delle prescrizioni AIA. In pratica, tutto rischia di restare così com’è chissà per quanto ancora. Le immagini dimostrano ancora una volta dunque, come l’Ilva sia lontana anni luce non solo da un’idealistica e impossibile eco-compatibilità, ma “semplicemente” da un serio e rigoroso controllo quotidiano soprattutto nelle aree più critiche. Dalle quali si sprigionano inquinanti che hanno avvelenato per decenni i nostri terreni, la nostra aria, i nostri polmoni, i nostri animali.
Come hanno confermato i periti epidemiologi nella loro relazione: “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. Il 4 luglio del 2012, il Centro Studi Ilva organizzò una giornata di lavori (l’ultima della sua breve storia) sulla diossina all’Histò sul Mar Piccolo, con la presenza di esperti internazionali ed ospiti locali d’eccezione (sindacalisti, imprenditori, politici, giornalisti), nella quale l’ing. Giancarlo Quaranta, direttore del Centro Studi Ilva, affermò che “i dati a disposizione, così ci dicono gli studiosi, non confermano gli allarmismi di alcuni”. Questa è la verità delle immagini. Oltre che delle parole. Un documento fotografico, che gli altri giornali si guardano bene dal pubblicare ancora oggi (a proposito di deontologia professionale e Ordini vari). Questo giornale, da anni, combatte una battaglia che tende unicamente alla verità dei fatti: per difendere una città intera e non solo alcune parti di essa. Operai in primis. Il sensazionalismo lo lasciamo volentieri agli altri. Come sempre.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 09.09.2013)