Nuova ondata di vel…Eni

TARANTO – Nel pomeriggio di ieri, la città di Taranto è stata nuovamente avvolta da una puzza nauseabonda proveniente dalla zona industriale. L’aria è diventata silenziosamente irrespirabile verso le 16 ed ha investito in pochi minuti interi quartieri della città: il rione Tamburi, Città Vecchia, il Borgo e Italia-Montegranaro. Come avviene in questi casi, decine le telefonate ai centralini dei Vigili del Fuoco, dei Vigili Urbani, della Polizia di Stato, dei carabinieri del NOE e del dipartimento di Taranto di ARPA Puglia. Così come decine i post sui vari social network. Ancora una volta tanti, purtroppo, i malori avvertiti dai cittadini. Ma questa volta il fenomeno delle così dette “emissioni odorigene”, stando a quanto abbiamo appreso, non dovrebbe derivare da operazioni dell’Eni, visto che dopo il nubifragio che ha colpito la raffineria nel tardo pomeriggio di lunedì, l’intero sito industriale ha tutti gli impianti in stand-by.

Il blackout energetico che ha colpito la raffineria ha fatto sì che non un solo impianto del sito restasse in funzione: ci vorranno infatti diversi giorni perché tutti gli impianti dell’Eni ritornino in marcia. E sempre al blocco energetico sarebbe dovuto quello che ieri l’azienda ha definito in un comunicato stampa (evento più unico che raro) “effetto di “trascinamento” di tracce di acque oleose, causando un fenomeno di iridescenza”. Stando a quanto dichiarato già nella serata di lunedì dalla Capitaneria di Porto e dagli addetti dell’Ecotaras, il “fenomeno di iridescenza” non avrebbe causato alcun danno ambientale all’ecosistema marino. Ma a dire l’ultima parola, anche in questo caso, saranno gli esami dell’ARPA presente sul posto con alcuni tecnici che hanno effettuato il classico prelevamento per analizzare lo stato dello specchio d’acqua interessato dal fenomeno.

Intanto, tornando a ieri, la domanda delle domande è sempre la stessa: a cosa è dovuto l’ennesimo fenomeno di avvelenamento silenzioso dell’aria di Taranto? Al di là delle analisi in corso da parte di ARPA, quasi certamente il tutto è dovuto al trattamento delle acque all’interno della raffineria. Le quali acque trattate, con gli impianti fermi, “ritornano a galla” portando con sé un odore di inconfondibile trattamento industrial-petrolifero.

Ciò detto, appare alquanto anacronistico che ancora oggi un’intera città si chieda il perché avvengano certi fenomeni, visto che da anni è chiara non solo la provenienza delle emissioni di gas (meglio conosciuto come veleno rispondente al nome di acido solfidrico), ma anche la natura di determinate situazioni. Prendiamo ad esempio il fenomeno delle torce fumanti. E’ oramai risaputo infatti che l’accensione delle stesse corrisponda ad un’operazione di sicurezza per tutelare gli impianti e i lavoratori, onde evitare fenomeni di gravissima entità. Questo accade ogni qual volta la raffineria risente di una diminuzione notevole o di una totale assenza di energia elettrica che la stessa preleva dalla rete nazionale. In molti si chiederanno com’è possibile che una delle raffinerie più grandi e importanti d’Italia possa andare in blackout energetico. Su queste colonne lo abbiamo spiegato decine di volte negli ultimi anni. La raffineria di Taranto è alimentata dalla centrale EniPower che fornisce energia elettrica e vapore tecnologico, costituita da un turboalternatore a gas con caldaia a recupero, alimentato a fuel-gas di raffineria, da tre caldaie a fuoco diretto, alimentate a olio combustibile e/o fuel-gas di raffineria, da tre turbine a vapore a condensazione ed estrazione e da una turbina a vapore a contropressione. La potenza totale installata è pari a 410 MW termici e 86 MW elettrici. Succede che la centrale attuale, a causa dell’obsolescenza di alcune apparecchiature (diverse sono in servizio addirittura dal 1966), non è più in grado di garantire adeguata affidabilità ed economicità alla fornitura di energia elettrica e vapore tecnologico alla raffineria.

Dunque, ogni qual volta la centrale EniPower va in blocco, automaticamente il gas presente nelle condutture dell’Eni viene convogliato e bruciato in torcia, onde evitare esplosioni che, evidentemente, causerebbero un disastro di immani e incalcolabili proporzioni. Non è un caso se dal lontano 2007 Enipower abbia in progetto di installare all’interno della raffineria una nuova centrale a turbogas, con l’obiettivo di rendere indipendente da un punto di vista energetico l’intero sito. Tema peraltro nuovamente affrontato in Commissione Ambiente al Comune con il direttore della raffineria di Taranto, Carlo Guarrata, la scorsa settimana (incontro a cui non era presente nessun esponente della società attiva tarantina). Il nuovo progetto, denominato come il precedente “Adeguamento della Centrale di Cogenerazione”, è al momento soggetto alla procedura di VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale) presso il ministero dell’Ambiente.

Forse in pochi ricorderanno che la società Enipower controllata al 100% dall’Eni, ma che non va confusa e identificata con “ENI Raffineria”, decise di rivedere il progetto originario (che prevedeva l’installazione di una centrale di 240 MW) nonostante l’ok ottenuto dal ministero dell’Ambiente nel 2010, a causa delle denunce del comitato “Taranto Libera” (oggi “Legamjonici” seguita con grande ritardo da altre sigle ambientaliste) e di questo giornale, oltre alla clamorosa retromarcia di Comune e Provincia di Taranto che avevano dato il proprio assenso al progetto in tempi non sospetti, a differenza della Regione Puglia che aveva presentato ricorso al TAR del Lazio (a cui si era anche accodato il Comune, dimostrando una leggera confusione di idee sull’argomento).

Il nuovo progetto, che prevede l’installazione di una centrale di taglia di 80 MW, pur prevedendo lo smantellamento della vecchia centrale ad olio combustile (impianto costruito nel 1966), non renderà però autonoma la raffineria da un punto di vista energetico, continuando quindi a causare i fenomeni delle torce “ammirati” anche nella giornata di lunedì. Certamente però, quanto meno si eviterà l’aumento di diversi inquinanti, come ad esempio il monossido di carbonio (da 87 ton/a a 456,4 ton/a) e la CO2 (+276). Inoltre, è bene ricordare che il progetto originario prevedeva un’ingente produzione di energia elettrica superiore alle reali esigenze della raffineria: non è un caso infatti se la stessa Enipower dichiarò che ben il 72% dell’energia prodotta sarebbe stata venduta sul mercato. Dunque, un ulteriore guadagno a danno dell’ambiente del territorio e della salute dei tarantini.

Ciò detto, è inoltre utile sottolineare che tutte le volte che dallo scorso ad oggi si sono verificati i vari fenomeni di avvelenamento dell’aria, l’ARPA abbia sempre riscontrato un mancato superamento dei valori limite di tutti gli inquinanti analizzati (oltre ad indicare l’Eni come fonte delle emissioni). L’imputato, in questi casi, è sempre stato l’idrogeno solforato, un composto dello zolfo molto odoroso anche a basse concentrazioni, ma per il quale non esiste un limite di legge per la concentrazione in aria. Eppure, stiamo parlando di un veleno. Questi fenomeni, purtroppo, si continueranno a verificare finché la raffineria Eni opererà sul territorio. Perché le grandi industrie avranno sempre un impatto negativo sull’ambiente e sulla salute. E’ come pensare che se un domani l’Ilva dovesse rispettare tutte le prescrizioni AIA (che abbiamo già visto non garantiranno la tutela della salute dei cittadini), magicamente scomparirà la famosa linea nera o marrone che ricopre l’intero orizzonte ogni mattina da oltre 60 anni.

La questione di fondo, dunque, è sempre la stessa. Ovvero se vogliamo una città con o senza grande industria: i compromessi non sono mai serviti e mai serviranno. Soltanto che su questo punto, che poi è, o dovrebbe essere, alla base di ogni battaglia locale, in pochi ci sentono. Basti pensare che nell’ottobre del 2011, al sit-in organizzato dal comitato Legamjonici all’esterno dell’Eni per dire “no” al progetto Tempa Rossa, si era in non più di 30. Perché la verità è che ci lamentiamo soltanto se avvertiamo l’odore di gas o vediamo fumi in lontananza (illudendoci ancora oggi dopo decenni di inquinamento che se non vediamo e/o non percepiamo i veleni nell’aria e nell’acqua essi ci evitino o quasi non esistano): altrimenti, nel resto dei giorni, preferiamo delegare a pochi la conduzione di battaglie solitarie utili però all’intera collettività.

E’ bene capire una volta e per tutte che la grande industria resterà qui finché le sarà utile: dopo di che, come sta già avvenendo per il caso Cementir, leverà le tende e ci lascerà in dote un territorio profondamente inquinato ed enormi e vetuste cattedrali nel deserto. Forse, sarebbe il caso di dire basta, ma nel vero senso della parola: se vogliamo riprenderci il nostro territorio e con esso il nostro futuro, la grande industria va combattuta quotidianamente e, soprattutto, va cacciata via per sempre da Taranto. E ciò può avvenire soltanto attraverso una lotta dura e senza compromessi. Lontano dalla forma e dalla comodità dei social network o di sit-in ed assemblee private oramai del tutto inutili. Mettendosi in gioco e soprattutto mettendoci la faccia. Altrimenti facciamo meglio a restare in silenzio.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 10.07.2013)

 

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