L’acciaio regge la crisi. Per ora

TARANTO – La produzione di acciaio in Italia nel 2013 è  attesa in linea con quella dell’anno appena conclusosi: 27,2 milioni di tonnellate, il 5,2% in meno rispetto al 2011. Secondo le previsioni di Federacciai però, si potrebbe scendere sotto questa soglia qualora l’euro dovesse continuare ad essere forte nei confronti del dollaro. “Nel 2012 la crisi è stata attutita solo grazie alle esportazioni. I forti rischi di svalutazione del dollaro e di rivalutazione dell’euro per un paese come il nostro peseranno”, ha dichiarato ieri il presidente dell’organizzazione, Antonio Gozzi. Federacciai, per chi non lo sapesse, è la federazione che rappresenta le imprese italiane del settore della siderurgia: fa parte di Confindustria e conta circa 150 aziende associate che realizzano e trasformano oltre il 95% della produzione italiana di acciaio.

Non è un caso, dunque, se tra i vice presidente dell’organizzazione vi è Nicola Riva. E’ ancora meno un caso se per anni ha ricoperto la stessa carica il fratello maggiore, Fabio. Del resto, le stime di Gozzi sulla produzione dell’acciaio fornite ieri, non hanno calcolato gli effetti che deriverebbero da un eventuale chiusura dell’Ilva di Taranto. E’ lo stesso Gozzi a confermare come, nonostante l’azione della magistratura, “fino a oggi l’Ilva, nonostante lo stop and go ha cercato di andare avanti con la produzione”. Cosa intenda il buon Gozzi quando parla di “stop and go” della produzione Ilva, non è dato sapere, visto che il siderurgico tarantino non ha mai di fatto cessato la sua attività produttiva. Anzi, secondo le tante testimonianze fornite dagli operai, dal giorno del sequestro avrebbe addirittura aumentato il suo “score” produttivo.

Nelle previsioni di Federacciai, l’Ilva quest’anno produrrà “fra 6-7-8 milioni di tonnellate”: ennesima testimonianza del fatto che la riduzione sulla produzione imposta all’Ilva dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini nella nuova AIA, 8 milioni di tonnellate, non provocherà alcun danno alle casse del gruppo Riva. “Se, invece, la situazione si incancrenisce – afferma infatti Gozzi – dai 27 mln di tonnellate prodotte nel 2012, considerate che quasi 8 vengono da Taranto”, ha concluso. Al di là della vicenda Ilva, resta un fatto incontrovertibile: che la crisi economica morde e si fa sentire sul settore dell’acciaio: rispetto ai picchi toccati nel 2007-08, la domanda europea è scesa del 30-35%, mentre in Italia solo negli ultimi due anni la domanda interna è calata del 40% in tutti i comparti, sia nei prodotti lunghi utilizzati nell’edilizia sia in quelli piani utilizzati per le auto. Quello che potrebbe accadere con un’eventuale chiusura dell’Ilva quindi, atterrisce il settore economico italiano al sol pensiero. Come riportammo su queste colonne lo scorso agosto nell’inchiesta sul mondo della siderurgia italiana, i numeri del siderurgico tarantino parlano da soli. Solo nell’ultimo anno, 8 milioni di tonnellate di prodotti finiti piani. I clienti hanno nomi pesanti: Fiat, Bmw, Peugeot, Finmeccanica, i principali tubisti italiani come Marcegaglia, Alfieri e Padana Tubi, le carpenterie metalliche Cimolai e il Gruppo Manni, imprese del settore elettrodomestici e caldaie, aziende del comparto costruzioni che operano nella realizzazioni di grandi infrastrutture.

C’è il commercio di prodotti piani, che acquista lamiere e coils per approvvigionare artigiani e micro aziende: 1500 commercianti, metà dei quali tratta prodotti piani, sul cui mercato italiano l’Ilva detiene l’80% (il 40% in complesso sui 28,5 milioni di tonnellate di produzione di acciaio italiana). L’industria nazionale si approvvigiona con 5 degli 8 milioni di tonnellate prodotte dall’Ilva, ovvero il 40-45% del fabbisogno della filiera industriale trasformatrice. Senza l’Ilva, toccherà importare dall’estero con costi finanziari extra anche sulla logistica: tra i 2 e i 5 miliardi di euro di spesa in più. Ma l’Ilva serve anche nell’export. Nell’ultimo anno il Gruppo Riva ha esportato 3 milioni di tonnellate (2,5 nella UE e mezzo milione nell’extra UE). Dunque, senza l’Ilva, aumenterebbero le importazioni e diminuirebbero le esportazioni.

Inoltre, in Italia non c’è azienda che potrebbe sostituire la produzione che garantiscono i Riva. Il Gruppo Arvedi, ad esempio, non ha la stessa capacità produttiva. Così come Piombino e Trieste. Ma oltre confine, ci riuscirebbero: eccome. C’è la ArcelorMittal (seppur in crisi), i danesi di Corus, ThyssenKrupp, i cinesi e i russi. L’effetto complessivo di sostituzione dell’Ilva sulla bilancia commerciale nazionale, oscilla tra 3,7 e i 5,5 miliardi all’anno. A cui vanno aggiunti oneri legati all’importazione, tra i 750 milioni e 1,5 miliardi di euro. L’onere complessivo per la cassa integrazione complessiva, sarebbe all’incirca di 330 milioni l’anno. La cifra finale è di circa 8 miliardi di euro l’anno. Ecco perché, anche Gozzi, non ha dubbi sul fatto che l’Italia, grazie all’Ilva, debba continuare a produrre acciaio: “Non esiste un solo grande paese industriale al mondo che non abbia produzioni siderurgiche, pensare che si possa fare a meno è stupido e irrealistico”. Ma dopo mesi di attacchi fuori luogo alla magistratura tarantina, anche Gozzi sembra aver ceduto su un punto: “bisogna produrre compatibilmente con la salvaguardia dell’ambiente, servono investimenti e lavori a lungo termine, come è accaduto all’impianto a ciclo integrale di Linz in Austria di Voestalpine”, ha aggiunto.

Perché per Gozzi, la situazione dell’Ilva, è simile a molti altri luoghi in Europa. Ma come mai sino ad oggi nulla è stato fatto? Anche Gozzi si dice “colpito” da questa mancanza. Non è per caso che il gruppo Riva ha “mancato” in tante situazioni? “La società ha guadagnato 4,2 miliardi e ne ha investiti nell’Ilva di Taranto 4,5, più di quanto il gruppo ha guadagnato in questi anni e di questi oltre un miliardo per l’ambiente. I Riva avranno molte colpe, ma cosa si deve chiedere a un imprenditore se non di reinvestire quello che guadagna in tutte le sue aziende? Non vorrei che senza un processo la partita dell’Ilva e dei Riva sia già chiusa”. Il solito ritornello, dunque. Ma nessuno, nemmeno Gozzi, chiarisce su cosa sarebbero stati investiti questi fantomatici 4,5 miliardi. Né chiarisce a cosa sia servito il presunto miliardo sull’ambiente, visto che anche il ministro Clini ha dovuto ammettere che gli impianti dell’area a caldo vanno risanati entro 3 anni perché inquinano. Non secondo i dati che però possiede Gozzi. “Secondo una recente rilevazione dell’Istituto Mario Negri di Milano (contenuto nella famosa controperizia dell’Ilva che però, “stranamente” non è stata presentata nell’incidente probatorio dai legali dell’azienda) a Taranto non c’è più diossina che in qualsiasi altra città italiana, questo perché non lo dice nessuno?”. Perché è una clamorosa bufala, caro Gozzi.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 30.01.13)

 

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