Ma quanto “vale” davvero l’Ilva?

TARANTO – Ma quanto conta l’Ilva per il Pil italiano? Noi lo scrivemmo in tempi non sospetti lo scorso giugno, prima dell’intervento della magistratura tarantina. Il centro studi di Siderweb, portale della siderurgia italiana, sulla base dei dati di bilancio 2010 estratti dallo studio “Bilanci d’Acciaio”, ha provato a fare un calcolo: verificare l’impatto della possibile chiusura (alla quale non crede nemmeno il più ottimista degli idealisti) del polo siderurgico sul Pil di Italia, regione Puglia e provincia di Taranto. Uno studio del 2008 della Banca d’Italia aveva calcolato per la provincia di Taranto un valore aggiunto del 75% del Pil: un dato al cospetto del quale si è sempre fatto più di un passo indietro. Ma da allora sono passati quattro anni, e qualcosa deve essere pur cambiato, complice anche la crisi economica mondiale che però, bene o male, al momento ha soltanto sfiorato il mondo dell’acciaio.

Bene, questo nuovo studio ha calcolato che “il peso diretto dell’ILVA sull’economia italiana, in termini di valore aggiunto (valore aggiunto Ilva/Pil nazionale), è pari allo 0,05%. Il peso sul Pil della Puglia è di circa l’1,24%, mentre quello sul Pil della provincia di Taranto è pari a circa il 7,7%”. Il peso, ovviamente, aumenta se si “considerano anche il valore aggiunto delle imprese dell’indotto e l’effetto sull’economia, soprattutto locale, dovuta ai consumi delle famiglie dei dipendenti (diretti e indiretti) dell’ILVA. Considerando anche queste componenti si può stimare intorno allo 0,15% il peso sul Pil italiano, inoltre se si fa riferimento all’intero comparto manifatturiero il peso raggiunge il 47,5% in riferimento alla provincia pugliese e l’8,24% sul confronto regionale.

Infine in relazione all’indotto nel confronto provinciale si tocca il 12,03% del totale mentre a livello regionale il dato del valore aggiunto raggiunge il 2,4%”. Dati che parlano da soli. Ed il nostro viaggio all’interno dell’acciaio italiano, dimostra che i dati nel tempo rischiano di assottigliarsi ancora di più. Lucchini, che è alle prese con una grave crisi finanziaria, avrà grandi difficoltà ad affrontare gli investimenti necessari. Solo per Piombino infatti, si parla di un miliardo di euro: ma difficilmente le banche saranno disposte a sostenere questo sforzo. Nell’ultima edizione dello Steel market outlook organizzato da Siderweb.com, si dice che dal 1995 ad oggi la gestione industriale Riva ha prodotto un utile di 2,1 miliardi e fatto investimenti per 6 miliardi: sarà. Nell’ultimo triennio la gestione è invece in perdita per un miliardo. “Nei prossimi cinque anni – stima lo studio – per l’Ilva saranno sostenibili investimenti per 1-1,4 miliardi di euro”.

Domanda logica e lecita: ma se c’è la necessità di investire un miliardo almeno solo nell’ambiente, come sarà possibile aggiornare tecnologicamente l’impianto per affrontare i competitor? Il problema dunque, è ancora una volta solo e soltanto economico. Giuseppe Manni, presidente del gruppo Manni HP, ricorda che la produzione dell’Ilva pesa per l’1,2% sull’acciaio mondiale: “Se chiudesse, l’impatto sarebbe minimo a livello globale, ma sul mercato italiano di registrerebbero effetti negativi sia in termini di prezzo sia di filiera”. L’Ilva è il salvagente dell’acciaio italiano: che va difesa a tutti i costi, a discapito anche della salute dei cittadini. “Se scomparisse – sottolinea Sandrini – i distributori dovrebbero ridefinire le politiche d’acquisto. I produttori siderurgici europei hanno le potenzialità per produrre le quantità mancanti di acciaio, ma verrebbe a mancare il ruolo-guida dell’azienda tarantina”.

L’Italia è uno dei Paesi Ue nei quali il Pil è sceso di più nel 2012, eppure la produzione siderurgica è diminuita meno della media europea: -1,9% nei primi 8 mesi dell’anno contro il -4,2% dell’Ue. Merito dell’export, ovviamente targato Ilva. Nel primo semestre 2012 l’export extra Ue della siderurgia nazionale è salito del 41,8%, contro ad esempio il +6% della Germania. La siderurgia italiana dunque tiene, ma allo stesso tempo è in crisi. Perché a cominciare dall’Ilva (per proseguire con Trieste e Piombino), al di là degli spot e degli slogan che lasciano il tempo che trovano, gli investimenti reali per ridurre l’impatto sull’ambiente e sulla salute dei cittadini si sarebbero dovuti fare a partire dagli anni ’90. Oggi, risanare, è pressoché impossibile. “Se chiude Taranto per il Paese sarà un disastro. Ragioniamo di una perdita che incide per 8 miliardi di euro sulla bilancia commerciale e quindi porterebbe a un peggioramento del Pil”. Questo il magistrale pensiero del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ieri sera a Genova al convegno di Confindustria dall’affascinante titolo “Verso un mondo nuovo”.

“Il caso Ilva – ha precisato Squinzi – è il più emblematico della difficoltà di fare impresa nel nostro Paese. La famiglia Riva ha comperato un’attività in grandissima difficoltà, l’ha rimessa a posto, ci ha investito, dovrà investire ancora, ma credo sia importante non perdere questa azienda”. Importante per chi e per quali motivi è oramai chiaro a tutti. Ciò detto, è altresì vero che la produzione dell’acciaio dell’Ilva e dell’altoforno 5 in particolare, è vitale per un preciso comparto della nostra economia, non certo per il Pil italiano, figurarsi per quello della città e della provincia di Taranto. Anche perché, se davvero l’Ilva producesse tutta questa ricchezza, oggi dovevamo essere tra le città più ricche e all’avanguardia del paese: vuoi mettere la fortuna di avere sul territorio una delle aziende più importanti dell’economia italiana? Per non parlare delle piccole e medie imprese: centinaia di imprese, di imprenditori pronti a far soldi ed arricchire la provincia regina del Sud. Avremmo dovuto avere un polo scientifico tecnologico all’avanguardia, un’Università indipendente e tra le migliori nel mondo.

E che dire delle strutture ospedaliere: vuoi anche soltanto per reggere l’urto impressionante e devastante degli “effetti collaterali” di tanto ben di Dio. Avremmo dovuto avere una città in cui la classe meno abbiente sarebbe dovuta essere al massimo il ceto medio. Per non parlare del turismo culturale e marittimo: siamo stati la capitale della Magna Grecia, possediamo opere, strutture e suppellettili unici nel mondo: altrove si venderebbero l’anima anche solo per avere un decimo del nostro patrimonio archeologico. O del nostro clima, del nostro mare, dei nostri tramonti. Ma evidentemente più di qualcosa non ha funzionato.

Visto che a partire dagli anni ’80 la popolazione di Taranto non fa altro che diminuire, anno dopo anno. Irrimediabilmente. Una fuga non verso la vittoria, ma verso la salvezza. Di migliaia di giovani, famiglie. Abbiamo perso amici, parenti, amori, sogni, speranze. E poi ancora AIA, ricorsi continui al TAR, bonifiche, campionamenti in continuo, camini che fumano, falde inquinate, scarichi a mare, zone interdette, inchieste, reati, incidenti probatori, animali abbattuti a migliaia, divieti di pascolo, malattie, tumori di ogni forma e grado e per ogni organo, bambini, donne, uomini, anziani: non si è salvata nessuna forma di vita. Inutile parlare di acqua, terra, aria. Tutto questo per ottenere cosa?

Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 2 ottobre 2012)

 

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