Ilva, tutto nella fogna – Le conseguenze dell’incendio di martedì scorso

TARANTO – La Relazione tecnica sull’incendio verificatosi presso lo stabilimento Ilva S.p.A. nel primo pomeriggio di martedì, ha confermato quanto già riportato ieri: il fumo denso sprigionatosi dall’incendio dell’olio isolante presente all’interno di un trasformatore che faceva parte della cabina di collegamento tra la rete elettrica Terna e la rete Ilva, non ha avuto conseguenze preoccupanti da un punto di vista di impatto ambientale. Sempre come riportato ieri, la Relazione tecnica ha confermato che soltanto la stazione di monitoraggio di via Machiavelli presso il quartiere Tamburi, vicina allo stabilimento Ilva, ha registrato valori medi di IPA totali sensibilmente più alti nelle ore 16 e alle ore 17. “Per le altre centraline della rete di monitoraggio presenti nella città di Taranto non sono stati rilevati valori anomali di concentrazione degli inquinanti. Le concentrazioni registrate, pur evidenziando per alcuni inquinanti un aumento durante l’incendio, non superavano i limiti di legge per la qualità dell’aria e ritornavano a valori più bassi dopo le ore 18”.

Dunque, almeno per quanto riguarda l’aria, questa volta siamo rimasti entro i limiti di legge. Stessa cosa però, non si può dire per quanto concerne l’acqua. Eh, sì: perché ancora una volta l’Ilva dimostra come i livelli di “azienda modello a livello europeo” (come la vorrebbero i suoi gestori, i politici e i sindacati), siano ancora molto lontani dall’essere raggiunti. L’ultima parte della Relazione tecnica è davvero sorprendente. Leggiamo insieme: “Al termine delle operazioni di spegnimento il personale Arpa Puglia verificava la presenza di un bacino di contenimento al di sotto del trasformatore incendiato che risultava completamente pieno di liquidi di spegnimento misti a schiuma e, verosimilmente, anche ad olio isolante rilasciato dal trasformatore. Tali liquidi tracimavano dal bacino invadendo l’area nelle vicinanze del trasformatore. Il piazzale veniva ricoperto quasi interamente dai liquidi e anche un’area non impermeabilizzata vicina al trasformatore veniva interessata da tali liquidi stessi”.

E già qui potremmo iniziare a chiederci in che modo siano stati spesi i famosi 4 miliardi di euro tra Sicurezza e Ambiente, paventati in questi anni dalla dirigenza dell’Ilva. Ma la conclusione della Relazione è, se vogliamo, ancora più eclatante: “Sul piazzale vicino al trasformatore era presente una griglia collegata alla fogna nella quale si infiltravano i liquidi; solo a incendio quasi domato il personale Ilva provvedeva a posizionare dei sacchi attorno alla griglia su citata per impedire che il liquido di spegnimento raggiungesse la fogna. Tali sacchi venivano rimossi durante le ultime fasi delle operazioni. Si sottolinea che, a causa dell’assenza di un sistema di raccolta e trattamento delle acque meteoriche, i liquidi di spegnimento hanno raggiunto la griglia richiamata nel verbale e pertanto sono confluiti nel sistema fognario, come già accaduto in occasione di altri incidenti”.

Dunque, sono anche recidivi, oltre che abbastanza “distratti”. Ed infine leggiamo: “Emerge ancora una volta la necessità che l’azienda si doti di un impianto di trattamento delle acque meteoriche”.

Come, come, come? Ci state dicendo che l’azienda siderurgica più grande d’Europa, “esempio e modello a livello europeo”, che ha “speso” 4 miliardi di euro per mettere in sicurezza i suoi impianti e raggiungere la famosa “eco-compatibilità”, non è dotata di un semplice impianto di trattamento per le acque meteoriche? Primo. Secondo: se l’Arpa Puglia è a conoscenza del fatto che già in incidenti precedenti vari liquidi hanno raggiunto il sistema fognario, vogliamo presumere che lo siano, ad esempio, anche Comune, Provincia e Regione. Così come vogliamo altresì dare per scontato che le nostre istituzioni, che la normativa vigente in materia di tutela delle acque prevede “l’obbligo di trattamento delle acque meteoriche per le quali vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici”.

In particolare, l’art. 113 del Decreto Legislativo del 3 aprile 2006 n. 152 (titolo III, capo IV: Ulteriori misure per la tutela dei corpi idrici) afferma che “ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, le Regioni, previo parere del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, disciplinano e attuano le forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate; i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione”.

E infatti la Regione Puglia, con Deliberazione di Giunta del 19 giugno 2007, n. 883, ha adottato, ai sensi dell’art. 121 del D. Lgs. n. 152/2006, uno specifico progetto di “Piano di tutela delle Acque”. Piano che, per quanto riguarda gli stabilimenti industriali, relativamente alla disciplina ed al trattamento delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne, prevede che “le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne che dilavano dalle pertinenze di stabilimenti industriali, di cui alla definizione, devono essere raccolte in vasche a tenuta stagna e sottoposte ad un trattamento depurativo appropriato in loco tale da conseguire il rispetto dei limiti di emissione previsti dalla tab. 3 di cui all’allegato 5 del D.Lgs. 152/99, per le immissioni in fogna e nelle acque superficiali; il rispetto dei limiti di emissione previsti dalla tab. 4 di cui all’allegato 5 del D.Lgs. 152/99, nel caso di scarico sul suolo. Inoltre, le acque di dilavamento successive a quelle di prima pioggia, che dilavano dalle pertinenze di stabilimenti industriali e che non recapitano in fognatura, devono essere sottoposte, prima del loro smaltimento, ad un trattamento di grigliatura, disoleazione e dissabbiatura”. Tutto questo, stando alla Relazione tecnica dell’Arpa Puglia, presso l’Ilva di Taranto non è avvenuto né nella giornata di martedì, né in occasioni di altri incidenti simili.

Inoltre, il piano regionale prevede anche, come è giusto che sia, delle sanzioni per chi non ottemperi a quanto sopra citato. L’art. 133, comma 9 del D.Lgs. 152/06 recita: “Chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell’articolo 113, comma 1, lettera b), è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento euro a quindicimila euro”. Mentre l’art. 137, comma 9 D.Lgs. 152/06, dichiara che “chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell’articolo 113, comma 3 (ossia chiunque apra o comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata), è punito con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da millecinquecento euro a diecimila euro”.

Ma dubitiamo fortemente che tali sanzioni saranno applicate. Così come dubitiamo che le nostre istituzioni siano a conoscenza di quanto sopra. Con l’Ilva che chissà per quanto tempo ancora opererà in un modo quanto meno sospetto e molto poco serio, sia nei confronti dell’ambiente che di un’intera città. Intanto però, mentre per decenni questa città ha vissuto senza conoscere la differenza tra controllori e controllati, oggi i periti epidemiologici depositeranno presso la Procura di Taranto la loro attesissima relazione. Può essere una giornata storica per Taranto. Può essere il primo, vero, punto di svolta per la storia di questa città.

 Gianmario Leone

g.leone@tarantooggi.it

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