Acciaio: produzione europea finirà

TARANTO – L’intera industria siderurgica mondiale ha un virus interno dal quale difficilmente guarirà: il suo nome è eccesso di capacità produttiva. Il proliferare di questa malattia rischia infatti di fermare definitivamente la redditività del settore. E’ questa l’analisi di un recente studio della Morgan Stanley Bank, che parla di un eccesso di capacità produttiva del settore dell’acciaio in grado di raggiungere 334 milioni di tonnellate generali sui 1,5 miliardi di tonnellate prodotte nel mondo. A livello globale, il tasso medio di utilizzo della capacità produttiva è di circa il 76%, ben al di sotto della redditività di un altoforno, tipicamente intorno all’85%.

Come segnalato già da tempo su queste colonne (ed anche da un recente approfondimento dell’associazione Peacelink), il problema principale deriva dal fatto che i paesi emergenti continuano a produrre ogni anno di più, mentre la domanda di acciaio rallenta. Secondo le previsioni di Morgan Stanley, per la domanda globale di acciaio è prevista una crescita del 3% all’anno per i prossimi cinque anni, invece del 5% registrato dal 2002. Sono soprattutto Cina, India e Russia che continuano a costruire industrie siderurgiche. Basti pensare che dal 2000 ad oggi, la Cina è riuscita ad arrivare a circa 750 milioni di tonnellate di acciaio annue prodotte. L’India ne produce 56, mentre la Russia e l’Asia centrale hanno aumentato la loro capacità sino a 36 milioni e la Corea del Sud ne realizza 31. Acciaio a milioni di tonnellate che, in parte, resta invenduto e inutilizzato.

L’Unione Europea registra un eccesso di 40 milioni di tonnellate: in percentuale viene utilizzato soltanto il 69% dell’acciaio prodotto. Secondo lo studio della Morgan Stanley, per adattarsi al livello attuale della domanda, la Cina dovrebbe chiudere diverse fabbriche – l’equivalente di 200 milioni di tonnellate -, la Russia dovrebbe tagliare 17 milioni, America Latina e Giappone 16 milioni. Ma sperare che i maggiori produttori mondiali di acciaio riducano la loro attività, è da escludere. “In Cina, dove il 49% dei produttori di acciaio sono imprese statali, è altamente improbabile vedere licenziamenti significativi”, dicono gli analisti di Morgan Stanley. A causa del suo ruolo centrale nella produzione industriale, la chiusura di un impianto in acciaio ha un elevato “effetto moltiplicatore” per il resto dell’economia, dicono gli analisti, in particolare nei paesi emergenti. E’ stato calcolato che assorbire questa capacità in eccesso comporterebbe l’eliminazione di ben 1,2 milioni di posti di lavoro nel mondo.

Ma se da un lato è vero che la sovrapproduzione pesa soprattutto sui prezzi dei coils (di cui l’Ilva di Taranto è il principale produttore in Italia), è altrettanto vero che i mercati dell’acciaio rimangono relativamente regionali, anche perché il costo del trasporto di una lastra è sempre molto alta. Ciò detto, “negli Stati Uniti, dove la domanda è attualmente forte, le importazioni aumentano quando le aziende cercano di aumentare i prezzi”, ha dichiarato Andrey Nikolaev, direttore per l’industria di Standard & Poor. In Europa, sostiene lo studio della Morgan Stanley, è quindi probabile che le importazioni sostituiranno la produzione, anche se il Vecchio Continente dovesse ristrutturare il suo mercato interno. Anche perché l’ultima minaccia arriverà dalla nascita del mercato siderurgico nei paesi nordafricani che tenderà a soddisfare la domanda interna, bruciando altre fette di mercato.

Tornando al mercato italiano, gli ultimi 12 mesi nel settore siderurgico hanno registrato un calo della domanda senza precedenti, soprattutto nell’edilizia. Mentre il mercato delle automotive e la meccanica stanno più o meno tenendo, per le costruzioni la situazione è molto critica con il mondo dell’acciaio troncato in due: chi lavora con le costruzioni soffre di più, mentre chi serve altri settori ha una situazione migliore. A tenere in vita le speranza, è soprattutto l’export. Scendendo più nel dettaglio il report mensile fornito da Federacciai ha evidenziato, anche nel quarto mese dell’anno, una diminuzione nelle produzioni di lunghi e piani per le acciaierie italiane. Ad aprile, i lunghi sfornati in Italia si sono attestati a 965 mila tonnellate, accusando un ritardo rispetto al medesimo periodo dell’anno 2012 del 5,7%. Dall’inizio dell’anno in corso, nel nostro Paese sono stati prodotti 3,836 milioni di tonnellate di lunghi, il 9,1% in meno rispetto al primo quadrimestre del 2012.

L’ultima mensilità contraddistinta dal segno positiva risale a dicembre 2012 (+1,4% su dicembre 2011). Da segnalare, appunto, l’incremento del 3,5% dell’export verso i paesi extra UE dei lunghi che, nei primi quattro mesi del 2013, ha raggiunto quota 653 mila tonnellate, a fronte delle 631 mila tonnellate del primo quadrimestre dello scorso anno. L’onda d’urto della crisi dell’Ilva continua a ripercuotersi sulla produzione nazionale di piani che, ad aprile, si è attestata a quota 988 mila tonnellate (-23,6% rispetto ad aprile 2012). Dall’inizio dell’anno in corso, i volumi sono ammontati 3,872 milioni di tonnellate, accusando un ritardo sul medesimo periodo del 2012 del 29,5%.

L’ultima fiammata su base mensile (+17,9%) risale allo scorso luglio: da allora, la produzione di piani ha inanellato nove mesi di risultati negativi. Il primo quadrimestre del 2013 ha evidenziato problemi anche nelle esportazioni: -25,3% nell’export verso i paesi dell’Ue e -27,5% nelle vendite verso i paesi al di fuori dei confini dell’Unione Europea. La soluzione per molti, come abbiamo sottolineato diverse volte, potrebbe essere la diversificazione verso gli acciai speciali. Una strada che in molti vorrebbero percorrere, ma che necessita di enormi investimenti impiantistici, culturali e di know-how. Ci vorrà tempo, troppo tempo. Il futuro della siderurgia, soprattutto italiana, è scritto già da tempo. Siamo di fronte ad un accanimento terapeutico su un malato terminale. Perseverare, oltre che diabolico, è praticamente folle.

G. Leone (TarantoOggi, 23.07.2013)

 

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