Vel…Eni in continuo – La Procura indaga

TARANTO – Svegliarsi alle 4 del mattino ed essere investiti da una puzza di gas nauseabonda e devastante. E’ quello che è successo a decine di tarantini ieri notte, in particolare agli abitanti del rione Tamburi, di Paolo VI, di Città Vecchia e del Borgo. A dire il vero, l’odore di gas ha investito la città per tutta la giornata di ieri, anche se ad intervalli ed intensità irregolari. In 7 sono finiti in ospedale e resteranno sotto osservazione per le prossime ore. Quanto accaduto ieri, secondo quanto relazionato da ARPA Puglia, è stato dovuto al riavvio di alcuni impianti dell’Eni, dopo che la raffineria era andata in totale blackout energetico nella giornata di lunedì. Per l’ente regionale per la protezione ambientale dunque, ancora una volta non ci sono dubbi sulla provenienza delle così dette “emissioni odorigene”.

Ma l’Eni, ancora una volta, nega. Nella tarda serata di ieri infatti, in una nota ufficiale l’azienda ha sostenuto che “con riferimento all’attribuzione degli odori molesti alla raffineria di Taranto si precisa che sono stati effettuati controlli interni al sito che non hanno evidenziato alcuna fonte di possibile inquinamento olfattivo. Tali controlli, svolti nei giorni precedenti, a raffineria ferma, hanno avuto esito analogo. Le attività di avviamento della raffineria, che non ha subito alcun guasto, stanno procedendo secondo le normali procedure operative”.

Così come avvenuto durante la Commissione Ambiente della scorsa settimana, quando il direttore della raffineria Carlo Guarrata ha respinto al mittente le ipotesi che le emissioni di acido solfidrico (H2S) derivassero dall’attività della raffineria. Eppure, tutte le relazione di ARPA sui fenomeni emissivi di H2S degli ultimi anni, indicano proprio nelle attività dell’Eni la sorgente delle emissioni di questo gas velenoso, composto dello zolfo molto odoroso anche a basse concentrazioni, ma per il quale non esiste un limite di legge per la concentrazione in aria.

Lo stesso direttore di ARPA Puglia, il dott. Giorgio Assennato, da noi contattato la scorsa settimana per esprimere un suo giudizio sulla tesi del direttore della raffineria, fu sin troppo chiaro sullo stato delle cose: “L’Eni nega da sempre anche davanti all’evidenza dei dati scientifici: evidentemente fa parte della loro politica aziendale. Semplicemente, se ne fregano, perché programmano e svolgono operazioni che comportano i fenomeni emissivi in questione, pur sapendo della presenza di condizioni climatiche sfavorevoli”. Eppure, l’ARPA assicura che tutti gli stabilimenti industriali presenti sul territorio ionico vengono contattati con un preavviso di due giorni quando le previsioni meteo indicano che il vento soffierà dal quarto settore (Ovest-Nord Ovest), evento climatico che da sempre “favorisce” lo spostamento di masse d’aria dalla zona industriale verso la città. Eppure, come ci ha confermato anche il dott. Giua (ARPA Puglia) nei giorni scorsi, “tutti i dati scientifici in nostro possesso ci dicono che l’idrogeno solforato proviene dallo stabilimento Eni”.

Sarà anche e soprattutto per questo che, dopo i cinque casi nel solo mese di maggio, la Procura di Taranto ha deciso di aprire un’indagine a carico di ignoti per getto pericoloso di cose: al momento non figura nessun indagato, ma sono diverse le persone già ascoltate dal pool ambientale della magistratura. Dell’indagine in corso sapevamo da tempo, ma per una questione di rispetto nei confronti del lavoro del pool ambiente della Procura e di ARPA Puglia, avevamo deciso di attendere l’annuncio dell’indagine da parte degli enti preposti come avvenuto ieri (a differenza degli altri organi di stampa). Incredibile ma vero, anche i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente hanno avviato due indagini conoscitive parallele a quelle della magistratura tarantina, per approfondire la questione. Se pensiamo che la raffineria Eni di Taranto è in piedi dal 1952, ogni commento appare superfluo sull’iniziativa dei due ministeri.

L’Eni, intanto, nega. Ma nel frattempo i cittadini di Taranto continuano a soffrire. Come abbiamo ribadito più volte su queste colonne, pur essendo l’idrogeno solforato un gas per cui non esiste un valore limite di legge, in letteratura si trovano numerosi valori che spaziano da 0,7 ng/m3 fino a 14 ng/m3 e che alcuni soggetti sono in grado di percepire l’odore già a 0,2 ng/m3. In corrispondenza dei valore di 7 ng/m3 (valore che si può assumere come soglia odorigena), la quasi totalità dei soggetti esposti ne distingue l’odore caratteristico. Basti pensare ad esempio che la centralina ENI 3, situata al confine con l’ex ospedale “Testa” e rivolta in direzione della città, alle 14 del 12 maggio ed alle 20 del 13 maggio scorso, ha rilevato livelli di H2S pari a 69 ng/m3: ovvero ben 6 volte il valore limite della soglia olfattiva. Siamo curiosi di conoscere i dati relativi a quest’ultimi giorni. Del resto, l’Eni sa molto bene che l’idrogeno solforato già a basse concentrazioni produce irritazione delle mucose, iperventilazione ed edemi polmonari, e l’esposizione prolungata comporta affaticamento cronico, inappetenza, cefalea, disturbi cognitivi e della memoria.

“Effetti indesiderati” che come ha riconosciuto lo stesso direttore della raffineria Carlo Guarrata in Commissione Ambiente, non sono certo piacevoli per la popolazione tarantina. Peraltro, del tutto gratuiti ed improvvisi. E che di certo non scompariranno. Perché quello che accade quando si sparge quell’odore di gas nell’aria, è come quando si fa benzina al distributore: l’odore del carburante lo senti, sempre e comunque. E come potrebbe mai una raffineria, allo spegnimento o al riavvio dei suoi enormi impianti, o nel carico e scarico di petrolio grezzo o lavorato, impedire quel tipo di “emissioni odorigene” nell’aria? Non è un caso, del resto, se l’H2S non ha un valore limite nell’ordinamento legislativo ambientale italiano (che pur sappiamo essere di maglie molto larghe).

Come ribadito anche ieri su queste colonne, il problema di fondo è sempre lo stesso: finché questi impianti industriali opereranno sul territorio inseguendo la famosa “logica del profitto”, non ci sarà AIA, Garante, Decreto o Legge che tenga. O loro, e quindi gli interessi economici strategici per l’Italia ed un lavoro che dà pane e veleno, o noi: e quindi la salute, l’ambiente e lo sviluppo di alternative economiche non impattanti sul territorio che valorizzino le risorse della nostra storia, della nostra terra e la creatività dei nostri giovani e di tanti onesti lavoratori e altrettanti attuali disoccupati tarantini. Non c’è possibilità di convergenza tra queste due realtà. Non c’è possibilità di compromesso. Non c’è eco-compatibilità che tenga.

Certo, avendo tirato la corda troppo a lungo, sarà impossibile passare da un sistema industriale così imponente e impattante, ad un sistema di vita completamente diverso da un giorno all’altro. Ci vorranno anni, indubbiamente. Ci vorranno tenacia, pazienza e tanti sacrifici. E soprattutto ci vorrà il coraggio di mandare via la grande industria senza aspettare che sia essa ad abbandonare questo territorio, creando ulteriori danni. Solo scegliendo quest’ultima strada potremo davvero realizzare, non soltanto a parole, un altro mondo, un’altra Taranto. Tutto il resto, non serve. O serve a poco, molto poco. In giro per strada, nei bar, nei locali, negli uffici, sui social network, si parla tanto di rivoluzione. Di rabbia. Di dolore.

Ma la rivoluzione, sociale oltre che culturale, nella storia non si è mai fatta a parole. Né con i compromessi, i sorrisi o le strette di mano. O vivendo, come accade ancora oggi a Taranto nonostante gli eventi degli ultimi 12 mesi, seguendo il pensiero dominante che dice che alla fine “siamo tutti amici”. “E’ indispensabile che la gente sia ispirata ad ideali universali, che essi abbiamo una generale idea dei loro diritti e un profonda, appassionata fede nella validità di questi diritti. Quando quest’idea e questa fede popolare si uniscono alla miseria che porta alla disperazione, allora la Rivoluzione Sociale è vicina ed inevitabile e nessuna forza al mondo può fermarla” (Michail Aleksandrovič Bakunin, Tver, 30 maggio 1814 – Berna, 1º luglio 1876).

Gianmario Leone (TarantoOggi, 11.07.2013)

 

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