Ilva, il bluff è servito

TARANTO – L’obiettivo è stato centrato in pieno. Ed è stato raggiunto in appena dieci giorni con una facilità disarmante. E’ infatti bastato annunciare le dimissioni dell’ad Bondi e del presidente Ferrante (lo scorso 25 maggio all’indomani dell’ultimo provvedimento della Procura e del gip di Taranto), perché lo Stato ed il governo tornassero ad interessarsi delle vicende dell’Ilva che troppo frettolosamente credevano di aver risolto dopo il rilascio dell’AIA e l’approvazione della legge 231, la ‘salva-Ilva’.

E’ bastato un ricatto soltanto annunciato per scatenare il panico a livello nazionale. Si è iniziato a parlare di decine di migliaia di posti di lavoro in pericolo e di un intero sistema economico pronto a saltare in aria. Eppure, sin dallo scorso 26 luglio, l’Ilva non ha cessato per un solo istante di produrre acciaio. Né ha licenziato un solo operaio. Ha invece minacciato di chiudere l’area a freddo e di chiudere tutti gli impianti italiani legati alla produzione dell’Ilva di Taranto. E aveva promesso di approvare il piano industriale 2013-2018 e il piano di finanziamento per i lavori di risanamento degli impianti dell’area a caldo previsti dall’AIA. Undici mesi di parole, di minacce e di ricorsi in tribunale: ma, di fatto, nessuna azione concreta (a cominciare dall’applicazione delle prescrizioni AIA).

Anzi, qualcosa di concreto è stato fatto. Ma dal gruppo Riva, che dopo aver cosparso una cortina di fumo “impenetrabile” attraverso le minacce dei suoi uomini, a cominciare dal presidente Bruno Ferrante, ha portato all’estero ciò che restava dell’impero economico realizzato grazie alla produzione del siderurgico tarantino dal ’95 ad oggi, finendo con il lasciare la patata bollente dell’Ilva in mano allo Stato che ha capito troppo tardi di essere stato “giocato”. Un bluff degno della migliore partita di poker economico-politica degli ultimi anni giocata da rappresentanti del capitalismo italiano. Dove il gruppo Riva all’ultima mano ha messo sul tavolo il futuro del siderurgico più grande d’Europa: lo Stato ha scelto di rilanciare ma è rimasto con un pugno di mosche in mano. Rimettendoci anche da sopra. E facendo perdere ancora una volta la giustizia, l’ambiente e la salute di questa città.

Non è un caso se sono tanti i malumori, anche politici, creati dal testo del decreto legge approvato martedì e che sarà certamente rivisto durante l’iter parlamentare che partirà dalla Camera: il provvedimento è infatti stato già assegnato alle Commissioni riunite Ambiente e Attività produttive. Ma è chiaro a tutti che adesso la linea “politica” sarà dettata unicamente da Enrico Bondi. Il quale, per prima cosa, volgerà il suo sguardo ammaliatore alle banche, visto e considerato che l’Ilva Spa non dispone assolutamente dei fondi necessari agli investimenti miliardari previsti dall’AIA. E le banche, da sempre, vogliono precise garanzie (oltre ad attendere gli aiuti che arriveranno dal piano della siderurgia che l’Ue presenterà il prossimo 11 giugno).

Questo, inevitabilmente, comporterà uno slittamento nel rispetto dei tempi e delle applicazioni delle prescrizioni. La cui attuazione sarà di precisa competenza degli esperti che sceglierà il ministero dell’Ambiente: Bondi, infatti, dovrà unicamente occuparsi del funzionamento dell’Ilva e che l’attività produttiva non cessi per nessuna ragiona al mondo. Per tutto il resto c’è tempo. Lo ha spiegato chiaramente ieri il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando: “c’è un dato assolutamente insuperabile: se la produzione deve proseguire, e le bonifiche e gli interventi di ambientalizzazione devono proseguire di pari passo, è necessario che ci sia una figura che si faccia carico di questo e sarà cura del Ministero dell’Ambiente individuarla.  Ma, è anche necessario che ci sia un manager in grado di far andare avanti dal punto di vista commerciale e industriale un colosso come l’Ilva”.

E che tutto sia stato un grande bluff, lo dimostra quanto accaduto ieri nella sede del gruppo Riva a Milano in viale Certosa. Dove è tornato a riunirsi il Cda dell’Ilva Spa. Che, ovviamente, dopo il decreto legge non ha preso alcuna decisione né ha proceduto ad alcuna nomina come invece previsto dall’ordine del giorno. L’assemblea, peraltro, è stata presieduta dal dimissionario Ferrante, che però al momento resterà all’interno del Cda. Questo perché l’assemblea sarà riconvocata a breve giro per nominare il rappresentante dell’impresa al quale il commissario Bondi dovrà riferire dell’andamento dell’azienda. Al quarto comma dell’articolo 1 del decreto legge è infatti espressamente previsto che “è garantita all’impresa, nella persona del rappresentante legale all’atto del commissariamento o di altro soggetto appositamente designato dall’assemblea dei soci, l’informazione sull’andamento della gestione”: vogliamo scommettere che il “rappresentante” dell’impresa sarà proprio il buon Ferrante?

All’assemblea di ieri ha partecipato anche l’amministratore del sequestro della Riva FIRE, il commercialista tarantino Mario Tagarelli, ex presidente provinciale dell’Ordine professionale di categoria, il quale ha chiesto che la prossima assemblea si svolga a Taranto. Ma il peso e la valenza del ruolo di Tagarelli è tutto da dimostrare. Perché se vero che lo stesso è stato incaricato dal gip di Taranto, Patrizia Todisco, di amministrare conti, depositi, titoli e partecipazioni detenute dalla capogruppo Riva FIRE, oggetto di sequestro preventivo ai fini dell’eventuale confisca in base alla legge 231 del 2001 (responsabilità amministrativa dell’impresa), è altrettanto vero che nel decreto varato ieri dal Governo si stabilisce che “il giudice competente provvede allo svincolo delle somme per le quali in sede penale sia stato disposto il sequestro anche ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001”.

Ciò vuol dire che gli avvocati dell’azienda a breve chiederanno lo svincolo delle somme. Da vedere se l’azienda, con Bondi come commissario e che in qualità di ad aveva anche firmato il ricorso al Riesame contro il provvedimento del gip, lo farà direttamente all’autorità giudiziaria o anche all’amministratore del sequestro (ovvero lo stesso Bondi!). E visto e considerato che tutto è andato secondo i piani, Emilio Riva e i due professionisti indagati (i commercialisti Franco Pozzi ed Emilio Ettore Gnech) a Milano, ieri hanno rinunciato al ricorso presentato al Tribunale del Riesame di Milano contro il sequestro di 1,2 miliardi di euro che, secondo l’accusa, sarebbero stati sottratti dalle casse dell’azienda, portati all’estero (nel paradiso fiscale del Jersey) e fatti rientrare con lo scudo fiscale nel 2009. Et voilà, il bluff è servito.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 06.06.2013)

 

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