“Eravamo pescatori, coltivatori di cozze, contadini, tutt’al più operai dell’Arsenale Militare e dei cantieri navali…”. Tonio Attino, giornalista disincantato, prende per mano i suoi ricordi e inizia un viaggio. Tra memorie di bambini e analisi da adulti, mescola numeri, cronaca e testimonianze. Traccia un confine – a tratti commovente – tra ciò che è stato e quello che, invece, sarebbe potuto essere. Una denuncia lucida, con tanto di nomi e avvenimenti che disegnano un quadro degli ultimi decenni della storia di Taranto. Una città che ha rinunciato al suo mare, agli ulivi, ad una ricchezza alternativa.
“Generazione Ilva” (Besa Editrice, 15 euro) è un libro che vuole restituire la verità oggettiva dei fatti anche quando chiama in causa quel Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano verso il quale tante mamme hanno riversato inchiostro e speranze. Non punta il dito contro scelte calate dall’alto, semplicemente le racconta, lasciando intendere che la colpa sta soprattutto nel silenzio, nell’apatia di tanti, troppi anni. Gli ultimi 50 più precisamente. Detta i numeri della strage: infortuni sul lavoro, decessi per patologie, ulivi buttati giù, vittime più o meno conosciute. “C’eravamo tutti dimenticati di avere un problema”, sottolinea con amara ironia mentre fa un salto indietro e ripercorre gli anni delle speranze, dell’illusione e della spasmodica ricerca di un miracolo, quel miracolo che la città sta ancora aspettando.
Ilva, Eni, Cementir, Arsenale: “Il futuro si vede meglio, guardandosi indietro”, dice Tonio Attino che nasce nel 1960 assieme all’Italsider e alle sue promesse. Torna al giorno della prima pietra, poi con le parole di Walter Tobagi alla figura del metalmezzadro, analizza una classe operaia incapace di essere tale, il movimento ambientalista nato di recente ma spesso diviso, la lotta dei magistrati, le sorti di Genova, Bagnoli, Sesto San Giovanni. Quello che da altre parti non esiste più, da noi è ancora realtà. Eppure occorrerà prendere coscienza del “Big One”, la terribile scossa. “La vita è un ciclo, tutto finisce, anche le fabbriche”.
Intanto se il mondo gira in un verso, Taranto va dall’altra parte. Eccola la Puglia dell’enogastronomia, del bel mare, del benessere tra le masserie secolari. Eccola invece la Taranto del cemento, del petrolio, dell’acciaio e della contaminazione alimentare. Ma in fondo chissenefrega. Sembra di sentirla quella voce lontana, motto ufficioso tra i due mari, “Che me ne fotte a me”, mentre Peppino Corisi chiedeva una targa della memoria al quartiere Tamburi. “Che me ne fotte a me”, dice ancora qualcuno, mentre in un tribunale si gioca il futuro. Ma in questa generazione dell’acciaio, qualcosa si sta muovendo, sempre in bilico tra le ciminiere. In fondo “Questa è la storia. Plateale, quotidiana. Addirittura normale”. E allora sembra quasi di camminare sospesi, come in quella copertina, in un punto di non ritorno. Ci siamo arrampicati fin qui, ora siamo più in alto delle nuvole, più vicini al destino.
Valeria D’Autilia per InchiostroVerde
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