TARANTO – Sono giorni di grande attesa: perché quanto deciderà il tribunale dell’Appello di Taranto, avrà senza dubbio un peso decisivo sul futuro della vicenda Ilva. E’ infatti improbabile che i giudici del Riesame accoglieranno la memoria difensiva presentata giovedì dai legali dell’azienda, in cui hanno sostenuto di ritenere inconsistenti le tesi della Procura, che ha giudicato anticostituzionale le norme contenute nel decreto legge 207 del 3 dicembre 2012 così come convertito nella legge n.231 del 24 dicembre scorso. E che per questo ha chiesto al tribunale di sollevare la questione di legittimità costituzionale alla Consulta.
Altrettanto improbabile inoltre, che il Riesame accoglierà la richiesta dell’azienda sul dissequestro dei prodotti finiti e semilavorati (1.700.000 tonnellate di coils e lamiere per un valore vicino al miliardo di euro) sotto sigilli della Guardia di Finanza dallo scorso 26 novembre. Quel materiale è il frutto di un’attività illecita, in quanto prodotto durante il sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo, sui quali l’Ilva non aveva più alcuna facoltà d’uso: dunque quell’acciaio che oggi l’azienda reclama con tanta enfasi, accompagnata dai sindacati e dagli autotrasportatori Ilva che ieri hanno inscenato una nuova protesta ripetendo a memoria le boutade pronunciate dal presidente Ferrante in settimana, altro non è che il corpo del reato commesso dal 26 luglio al 3 dicembre, con la connivenza silenziosa di istituzioni e sindacati.
Se dunque il tribunale dell’Appello darà ragione alla Procura sollevando la questione di legittimità costituzionale, il prodotto resterà sotto sequestro sino a quando non si sarà pronunciata la Corte Costituzionale (alla quale a breve arriveranno anche le considerazioni e le richieste del gip Patrizia Todisco). A quel punto, il gruppo Riva non potrà più continuare a giocare a nascondino, uscendo allo scoperto e dichiarando ciò che ha già deciso da tempo: ovvero il disimpegno nella gestione del siderurgico. Perché al di là delle mille parole sin qui spese dall’azienda, dei continui appelli e annunci dei sindacati, delle tante proteste a comando partite in questi mesi, delle minacce e delle promesse, la verità è una soltanto: il gruppo Riva non ha la minima intenzione di investire miliardi di euro nel risanamento degli impianti.
E, detto per inciso, anche qualora dovesse avvenire l’impossibile, ovvero mettere su in pochi anni un’Ilva nuova di zecca, essa inquinerebbe lo stesso (e noi comunque non la vorremmo). E il danno arrecato al territorio e ai cittadini andrebbe comunque risarcito. Ciò detto, il prodotto sequestrato è solo l’ultimo, l’ennesimo pretesto per continuare a prendere tempo. Il fatto che l’Ilva non abbia ancora presentato un piano industriale degno di questo nome, la dice lunga sulle reali intenzioni dell’azienda. Così come, altro segno evidente di un gruppo oramai pronto all’addio, è la tragicomica situazione finanziaria della Riva Fire. I debiti finanziari totali della società ILVA Spa sono passati da 335 milioni di euro nel 1996 a 2,9 miliardi di euro, di cui soltanto 705 milioni con le banche, corrispondenti a circa un quarto del totale, da ripianare entro quest’anno.
Il rimanente 75% sono debiti finanziari nei confronti delle altre società del Gruppo ILVA e della controllante Riva FIRE Spa. Il patrimonio è invece passato da 620,8 milioni a 2,4 miliardi di euro; i debiti finanziari risultano quindi pari a 1,2 volte il patrimonio. I debiti finanziari sono aumentati soprattutto nell’ultimo quadriennio (da 1,8 a 2,9 miliardi) a causa della riduzione dei flussi di cassa provocata dai risultati negativi della gestione industriale (-805 milioni di euro). Eppure, a fronte degli ultimi tre bilanci miliardari (2009, 2010, 2011), le casse del gruppo Riva in Italia sono “desolatamente” vuote (poche centinaia di milioni trovati dalla Guardia di Finanza). “Strano”, invece, che negli ultimi mesi si siano registrati diversi movimenti nelle holding offshore del gruppo dove è ben custodito il tesoro di famiglia. Nessuno invece pare sapere dove si trovi Fabio Riva, vice presidente del gruppo Riva Fire, latitante dallo scorso 26 novembre. Anche se, quando ti ritrovi a leggere le motivazioni dei giudici del tribunale del Riesame di Taranto sul perché hanno rigettato il ricorso di Emilio Riva contro gli arresti domiciliari e hanno concesso gli arresti domiciliari all’ex storico direttore dello stabilimento Capogrosso, che invece si trovava detenuto, tutto diventa più chiaro.
I due hanno dato “prova” di una “spiccata pervicacia, spregiudicatezza e capacità a delinquere, continuando nelle condotte delittuose nonostante la consapevolezza della gravissima offensività, per la comunità cittadina e i lavoratori, delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali, e nonostante il susseguirsi, sin dagli anni immediatamente successivi all’acquisto dello stabilimento siderurgico da parte del gruppo Riva, di varie pronunce giudiziali che ne hanno duramente stigmatizzato la disinvolta, criminosa gestione dei problemi ambientali creati dalle emissioni della stessa industria”. E’ uno dei tanti motivi per cui in tanti, oggi, dovrebbero solo vergognarsi e tacere. E andare via da Taranto per sempre. Intanto, ieri, sono stati erogati gli stipendi del mese di dicembre ai dodicimila dipendenti dell’Ilva. Che il buon Ferrante ha spacciato come “l’ennesimo sacrificio” da parte del gruppo Riva. Buon week end.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 12.01.2013)
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