Taranto, sul porto tutto tace

TARANTO – Sul futuro del porto di Taranto, è calato un sinistro silenzio. Eppure, stiamo parlando di quel settore che dovrebbe diventare di qui a breve la prima vera alternativa economica per il nostro territorio, specie se nel prossimo futuro si dovesse andare a verificare la chiusura definitiva dell’Ilva. Come non ricordare, ad esempio, gli entusiasmi che generò la firma dell’accordo per lo sviluppo dei traffici containerizzati nel porto di Taranto lo scorso 20 giugno a Roma. L’obiettivo era proprio quello di consentire il rilancio e la riqualificazione economica e occupazionale dello scalo ionico e dell’intera provincia ionica. Come dimenticare l’inaugurazione in pompa magna, con tanto di taglio del nastro da parte di rappresentati del governo Monti, dei lavori per il gate container della futura Piastra Logistica. Eppure, a tutt’oggi, è ancora tutto fermo. L’accordo firmato a Roma, prevedeva investimenti per 190 milioni di euro in opere di protezione del Porto, di riqualificazione ambientale e di riconfigurazione delle banchine, che consentiranno di risolvere le criticità di carattere infrastrutturale dello scalo ionico.

Accordo che rientrava in un finanziamento totale di ben 400 milioni, per la realizzazione una serie di modifiche strutturali che hanno come obiettivo quello di dotare Taranto del porto più competitivo del Mediterraneo. Il progetto infatti, prevede l’ingresso in porto delle nuove navi che si stanno inserendo nei traffici intercontinentali, far arrivare le merci nel cuore del mercato europeo in 36 ore e dotare l’area retroportuale di nuovi servizi. Soltanto pochi mesi fa sembrava possibile realizzare l’obiettivo di sviluppare il processo di apertura dei contenitori e la prima lavorazione delle merci, destinati a generare nei vari progetti in itinere, nuove ricadute economiche ed occupazionali che andrebbero poi ad integrarsi al sistema aeroportuale di Grottaglie. All’epoca dei fatti, tutte le parti firmatarie dell’accordo si impegnarono a completare il piano degli interventi previsti entro 24 mesi dalla sottoscrizione. Nel dettaglio, l’obiettivo primario riguarda la realizzazione del dragaggio e della cassa di colmata (79 milioni), la nuova diga foranea di protezione del porto fuori rada di Taranto (32 milioni) e l’allargamento strutturale della banchina di levante del molo San Cataldo (35 milioni). Prevista inoltre la realizzazione della intermodalità con il completamento del collegamento ferroviario del bacino logistico con la rete ferroviaria nazionale (35 milioni).

In più, come detto, é prevista la realizzazione della piastra logistica (219 milioni) con lavori che sarebbero già dovuti partire. Sempre in quei giorni, la Regione Puglia sottolineò come a questi investimenti si sarebbero dovuti necessariamente aggiungere i 355 milioni di opere stradali e ferroviarie in corso di realizzazione attraverso il PON Trasporti e i fondi FESR e i 211 milioni previsti dalla Programmazione del Piano Sud. L’accordo di 190 milioni, infine, venne inserito con grande furbizia da parte di tutte le istituzioni, nel Decreto per il risanamento e la bonifica dell’area di Taranto di 336 milioni. Poi, lo scorso 29 agosto, la prima doccia fredda: la Regione Puglia, durante la ratifica del Decreto legge per l’area di Taranto, chiede al Ministero dello Sviluppo economico di definanziare il progetto del Distripark di Taranto (in piedi dal 2000), previsto nella parte retrostante del porto ed inserito nella delibera CIPE del 2011, destinando i soldi in questione a favore della realizzazione del Molo polisettoriale dello scalo.

Ma far sparire il Distripark, ovvero l’area allocata a monte dei terminal portuali e integrata con un sistema di trasporto intermodale, dove viene reso possibile dare valore aggiunto alle semplici operazioni di carico e scarico dei container, vuol dire far venir meno tutti i lavori di cui sopra. Relegando lo scalo ionico, appunto, a semplice funzione di transhipment di container (carico e scarico): niente di più e niente di meno di ciò che è oggi. Senza dimenticare che dallo scorso maggio è partita la cassa integrazione per ben 500 lavoratori (100 tra impiegati e quadri e 400 operai), grazie alla quale è stato revocato lo stato di mobilità nei confronti di 160 dipendenti della Taranto Container Terminal (Tct) avviata nello scorso febbraio (anche se proprio ieri è stato dichiarato lo stato di agitazione dallo Slai Cobas TCT, per il metodo discriminatorio con cui viene gestita la turnazione della cassa). Ma se è vero che il definanziamento del Distripark e la burocrazia possono aver in qualche modo rallentato l’iter dell’inizio dei lavori previsti da oltre quattro mesi, è anche vero che la vicenda Ilva recita un ruolo fondamentale in questo momento. Durante il convegno infatti, il Presidente dell’Autorità Portuale ha elencato numeri che parlano da soli: nel solo 2011, l’89% dei traffici è stato generato dalle rinfuse solide, liquide e merci varie movimentate da ILVA, Cementir ed ENI.

Solo l’11% è costituito da merci che viaggiano in contenitori. Evidenziando come, nella classifica nazionale, il porto di Taranto é al 1° posto per la movimentazione delle rinfuse solide, al 9° posto per la movimentazione delle rinfuse liquide e al 3° posto per la movimentazione totale delle merci. Lo stesso Prete ha inquadrato tra le maggiori criticità che riguardano lo scalo ionico, le lunghe e farraginose procedure burocratiche ambientali strettamente dipendenti dalla classificazione del porto di Taranto quale area SIN, che però è dovuto proprio all’inquinamento prodotto dalle tre grandi industrie su citate. Del resto, non è un caso se dal 2001 ad oggi, le uniche opere pianificate e realizzate sono il Varco Nord ed il gate di TCT. Ed al di là di tutti i progetti e gli obiettivi futuri individuati per lo scalo ionico di cui sopra, il problema principale resta come detto la situazione dell’Ilva. Prete infatti, concludendo il suo intervento, ha illustrato le quattro ipotesi possibili che potranno verificarsi in connessione all’attuale e futura situazione del siderurgico. Nell’ipotesi più ottimistica ma più improbabile, si avrà il mantenimento della movimentazione dei traffici durante gli interventi di ambientalizzazione: ovvero nel caso in cui all’Ilva la Procura conceda di continuare l’attività produttiva. Un’ulteriore alternativa prevede la riduzione della movimentazione dei traffici per la realizzazione degli interventi di ambientalizzazione, che potrebbero comportare la riduzione dell’attività stessa del siderurgico.

In tal caso, ha spiegato Prete, sarà necessario procedere ad una razionalizzazione e/o revisione delle aree e delle banchine date in concessione all’ILVA. La terza ipotesi, la chiusura degli impianti, provocherebbe una contrazione del volume del traffico merci pari al 71,2%, consentendo tuttavia all’Autorità Portuale di rientrare in possesso delle aree date in concessione all’ILVA e pari al 66,6% delle aree portuali totali. L’ultima ipotesi invece, prevede il solito scenario catastrofico: chiusura degli impianti con l’obbligo di provvedere alla necessaria bonifica. Ciò porterebbe non solo alla contrazione dei traffici del 71,2% ma anche l’impossibilità, per l’Autorità Portuale, di rientrare in possesso delle vaste aree di che trattasi che non potrebbero, pertanto, essere destinate ad altre attività. Insomma, ancora una volta, questa città, la sua economia e il suo futuro sono legati al gigante d’acciaio. Ma lo stesso Prete, tempo fa, aprì uno spiraglio per scenari diversi: ovvero sviluppare una serie di progetti tesi a diversificare l’offerta portuale. E sarebbe anche ora.

G. Leone (TarantoOggi del 17 ottobre 2012)

 

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