Ilva, quanti errori!

Se la storia di Taranto, quella legata all’Ilva, fosse una puntata della saga del Cavaliere oscuro, in questo periodo nelle sale cinematografiche, noi tarantini saremmo sicuri di avere un happy end. Un finale di quelli che oramai sembrano passati di moda nella realtà, in cui la vita umana di migliaia di persone viene prima degli interessi economici. Perché oramai la verità è una: si diventa eroi a difendere la dignità umana. Sono eroi gli operai dell’Alcoa che si arrampicano sul silo a 70 metri di altezza, scesi solo perché uno dei tre, cardiopatico, avverte un malore.

Sono eroiche le famiglie che arrivano faticosamente alla fine del mese, grazie anche ad un secondo lavoro, magari in nero, che oggi serve più dell’ossigeno a sfamare la prole; sono eroine le mogli degli operai dell’Ilva che si ribellano ad un inquinamento che uccide, anche se la mancanza di lavoro potrebbe intossicare una vita già ai limiti della sopravvivenza. Purtroppo però è diventato maledettamente difficile trovare eroi nella politica. Impossibile scovare parole, tra chi di mestiere dovrebbe tutelare l’interesse del Paese, che stigmatizzano il comportamento tenuto dall’Ilva in questi anni. Forse perché le intercettazioni stanno togliendo il velo su ciò che accadeva nei piani alti dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa, smascherando più di qualche altarino. Tanto che neppure la Chiesa n’è uscita senza macchia. In ogni ambito, ecco le mosse sbagliate che accendono i riflettori su un Paese che sta andando a rotoli a causa di un malcostume dilagante che, da Nord a Sud, non risparmia nessuno.

Lavoro – Soli contro tutti: l’Apecar è diventato il simbolo della rivolta degli operai. Una tempesta che travolge in maniera trasversale il mondo sindacale, colpevole, secondo gli operai, di essere diventato una categoria autoreferenziale. L’osservazione che aggiungo, in veste di cronista e di persona abituata da anni a ricercare un lavoro, ormai non più indeterminato, è: ho vissuto a Taranto fino a 28 anni e non sono mai riuscita nell’ardua impresa di trovare nei tradizionali canali di ricerca lavoro (giornali locali, agenzie interinali, collocamento) un annuncio che riguardasse l’Ilva. Eppure gli oltre 11mila operai saranno stati assunti tramite selezione, in risposta ad un annuncio di richiesta di manodopera. Ecco forse il sindacato avrebbe dovuto vigilare maggiormente anche sulle modalità d’ingresso perché nonostante si tratti di un’azienda privata, si doveva garantire, ad una città che ha pagato, e continua a farlo, un prezzo troppo alto, almeno trasparenza nelle modalità di accesso. E invece il silenzio, di tutti i principali soggetti istituzionali, porta ad insinuare il dubbio che una grande azienda (del nord) abbia adottato quell’odioso metodo clientelare che ha intossicato non solo il povero meridione, ma oramai l’intero stivale.

Salute – E’ diventato un argomento molto in voga nei Palazzi romani. Come se la curva ascendente dei malati di tumore si fosse impennata a Taranto improvvisamente. E invece la morte ha investito già più di una generazione, per questo bisognerebbe usare maggiore cautela nel snocciolare cifre che celano dolore e sofferenza. Tra i rimpalli dei numeri, mi ritorna in mente la proposta che l’Ilva aveva avanzato durante una delle tante conferenze stampa, durante le quali aveva sempre ignorato le istanze dei tarantini. Ritorno al periodo in cui si discuteva animatamente dei fondi da destinare al registro dei tumori, lo strumento scientifico che serve a codificare le morti di tumore ed a individuare una (eventuale) connessione con gli agenti inquinanti presenti nell’aria di Taranto. Ebbene l’Ilva si proponeva di finanziare questo progetto, ignorando l’evidente invasione di campo. Come se nulla fosse, i dirigenti dello stabilimento siderurgico ci rimasero persino male al rifiuto secco e risoluto dell’Asl. Eppure volevano solo contribuire al benessere dei cittadini. Un po’ come la bizzarra iniziativa della lotta al fumo, solo di sigaretta s’intende, che hanno portato avanti nei mesi scorsi: il tutto puzza di quell’antipatico perbenismo, di tradizione americana, che non consente ad un condannato a morte, nell’ultimo miglio verde, di fumare perché nuoce alla salute.

Comunicazione – Può sembrare assurdo, ma una grande azienda come l’Ilva che conta oltre 11mila dipendenti, avverte la necessità di un ufficio comunicazione solo nel 2009. Prima il vuoto o quasi. Fino ad allora, infatti, a relazionarsi con i media e gli altri soggetti istituzionali c’era Girolamo Archinà, noto, tra l’altro, per aver sottratto il microfono ad un giornalista che chiedeva conto ad Emilio Riva, il capo dell’azienda, come mai a Taranto ci fosse un numero spropositato di tumori. Ebbene Archinà è stato protagonista dell’estate: con le sue dichiarazioni (intercettate) ha conteso a Belen le prime pagine dei giornali. Di fatto più che occuparsi della comunicazione, Girolamo avrebbe cercato il modo per “addomesticare” i giornalisti, come emerge da una frase che ha fatto il giro del mondo, in poche ore grazie al web: “io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliarle la lingua! Cioè pagare la stampa per non parlare!”.

Fortunatamente non tutti i giornalisti si possono comprare e così l’Ilva ha iniziato ad avvalersi di comunicatori “esperti”; in realtà, a parte il responsabile, Andrea Rogazione, gli altri sono tutti giovani presi all’interno del siderurgico che dimostrano di avere una qualche affinità con la materia. Pian piano arrivano, grazie anche all’aiuto di un’agenzia esterna milanese, a realizzare la rivista il Ponte, ora distribuita gratuitamente in tutte le edicole, che nell’intenzione originaria avrebbe dovuto alimentare un dialogo con la cittadinanza, ma che di fatto diventa ben presto megafono delle tesi aziendaliste. La sensazione che si avverte, confermata dalle intercettazioni effettuate dalla Guardia di Finanza, nell’ambito dell’indagine “Ambiente Venduto”, è che il linguaggio usato dall’Ilva sia stato un altro.

I passaggi di Archinà che tradiscono la filosofia della fabbrica sono almeno due: “E siccome abbiamo voluto scegliere con gli scienziati di Milano… facciamo la stampa… facciamo tutte le belle cose degli spot”. E poi “Nel  momento in cui abbiamo scelto la linea che sicuramente è più corretta, della trasparenza” (…) “non ci raccogliamo più”. Frase che lascia intendere la delusione per una comunicazione troppo libera e pensante. Sarei curiosa di conoscere la portata degli investimenti riservati dall’Ilva alla comunicazione istituzionale e il volume di soldi spesi dal “povero” Archinà, da luglio nuovo “disoccupato” italiano, nell’affannosa ricerca degli “acquisti” sul campo. Da persona che non ama il rischio, scommetterei che abbia prevalso quest’ultimo. A questo punto mi aspetto che non si spari nel mucchio, ma che escano i nomi ed i cognomi di quei mercenari che, invece di descrivere la realtà dei fatti, hanno raccontato una verità guidata da una occulta mano invisibile. Va detto che alcuni volti noti e penne blasonate si sono defilate nell’ultimo periodo, proprio in concomitanza con il boom mediatico sul caso Ilva, senza che peraltro ne avvertissimo la mancanza.

Fabiana Di Cuia

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