Forse solo nel 2012, col sequestro degli impianti, l’acciaieria tarantina aveva vacillato cosi tanto quanto in questi giorni. Il futuro dell’ex Ilva è incerto e il governo avanza a tentoni, non avendo ben chiaro come procedere dopo l’annunciato addio di Mittal.
Cedere al ricatto della multinazionale che chiede di mantenere l’impianto a patto di tagli clamorosi di personale e riduzione di costi di affitto?
Trasferire tutto in mano ai commissari nell’attesa che nuovi privati si facciano avanti, magari con il contributo anche dello Stato? Oppure nazionalizzare del tutto e gestire a pieno titolo l’industria accollandosene completamente costi e rischi?
Opposizioni (Lega soprattutto), ampia parte dei sindacati, Confindustria, Partito Democratico premono perché Mittal torni al tavolo delle trattative e incalzano il governo affinché faccia di tutto per far rispettare il contratto che legava gli indiani a Taranto.
Certo è che accettare da parte del governo le richieste di Mittal darebbe l’immagine di un governo debole con una multinazionale prepotente e attenta solo ai propri interessi economici.
Taranto come al solito è spaccata e alle legittime paure di operai e dipendenti dell’indotto si contrappongono le proteste dei tanti cittadini che rivendicano il diritto alla salute e alla salubrità dell’aria che respirano.
Nelle assemblee pubbliche e nelle sedi delle tante associazioni che compongono il variegato mondo civico-ambientalista della città, la richiesta che viene pronunciata a gran voce è “chiusura delle fonti inquinanti”.
Il grido di sofferenza di Taranto è stato ascoltato anche dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha avuto l’accortezza di incontrare tutte le parti sociali coinvolte nella questione ex Ilva.
L’aspetto su cui dovremmo ragionare è però il seguente: la richiesta di chiusura immediata e riconversione economica ha qualche possibilità di essere presa in considerazione? Ne dubitiamo fortemente.
L’ipotesi chiusura fa paura a gran parte delle forze politiche nazionali e, stiamo pur certi, nessuno avrà il coraggio di fermare gli impianti in maniera repentina. Se l’obiettivo di tanti è la chiusura, questa non può che passare attraverso una tappa fondamentale: la nazionalizzazione o statalizzazione che dir si voglia.
Lo Stato, responsabile di non essere stato in grado di tutelare per decenni la salute dei tarantini, deve prendere in carico la gestione dello stabilimento siderurgico e mettere in moto un cronoprogramma di graduale spegnimento e contestuale riconversione e rinascita della nostra città.
Rispetto ad una proposta così categorica di alcune associazioni, come l’immediata chiusura, quella di una nazionalizzazione avrebbe sicuramente una maggiore accettazione a livello locale, nazionale, sindacale e occupazionale. Una volta nelle mani dello Stato, sarebbe più facile fare pressione per ristabilire legalità e diritto alla salute a Taranto.
È infatti più facile che un governo elabori un decreto che impedisca lo spegnimento di un afo 4 se l’industria è in mano al privato. Viceversa, se essa fosse completamente in mano pubblica, prevarrebbe il diritto alla salute e la sicurezza sul lavoro rispetto a situazioni di alterato rischio.
Lo Stato, inoltre, quasi mai manda a casa gli operai e, di fronte all insostenibilità dei costi per il mantenimento in attività degli impianti, più facilmente ragionerebbe su progetti di riconversione e bonifiche.
È insomma il momento di essere concreti e non inseguire a tutti i costi sogni purtroppo irrealizzabili. L’acciaieria tarantina deve chiudere, ma per arrivare a questo obiettivo bisogna agire con furbizia e sfruttare il momento di incertezza del governo. Nazionalizzare, superando gli ostacoli delle normative europee, potrebbe essere un buon risultato per tutti che avvicinerebbe ulteriormente il momento della chiusura che in tanti auspichiamo.