Foto di Marco Serracca
TARANTO – Ci si può disamorare di un sogno così come accade nei confronti di un uomo o di una donna. E accade non perché viene meno il sentimento, ma perchè – col passare del tempo – questo amore comincia a essere contaminato da rabbia e amarezza. Le aspettative, spesso, sono le peggiori nemiche della nostra felicità. E quando lasciano il passo alle delusioni ci sentiamo feriti e sopraffatti, inesorabilmente sconfitti.
E’ ciò che prova chi, come noi, ha cullato per anni il desiderio di un’Ilva finalmente chiusa e resa innocua. Una grande fabbrica in disarmo che ritira i suoi tentacoli restituendo spazi vitali alla città. E in certi momenti – mi riferisco in particolare all’estate del 2012 quando l’inchiesta “Ambiente Svenduto” sfociò nel sequestro dell’area a caldo – è sembrato quasi di sfiorarlo quel sogno.
La magistratura si stava muovendo nella direzione auspicata dalla parte più ecologista della città, mentre la politica vedeva emergere nuovi paladini: uomini e donne finalmente schierati dalla parte della salute e dell’ambiente. Eppure, nel fare qualche passo avanti, la città ha sempre finito per compierne cento indietro, a dispetto delle evidenze scientifiche che dimostrano i danni sulla salute prodotti dai veleni industriali.
Non è un caso che alle ultime elezioni amministrative (2017) abbia prevalso un candidato sindaco di centro-sinistra, in piena continuità con la politica filo-industriale delle precedenti amministrazioni comunali. E allora, viene da chiedersi: cosa è davvero cambiato da quando (aprile 2013) la gran parte dei tarantini snobbò il referendum sulla chiusura dell’Ilva?
All’epoca il quorum rimase a distanze siderali: andarono a votare solo 32mila tarantini, il 19,5 per cento degli aventi diritto. Oggi cosa accadrebbe? Davvero si otterrebbe un risultato (decisamente) migliore? O continuerebbe a prevalere la paura nei confronti di quello che viene percepito come un “salto nel vuoto”? La verità è che, nonostante i buoni propositi di tanti volenterosi, il consenso nei confronti del Piano B deve ancora maturare in maniera prepotente al punto da inchiodare i governanti alla responsabilità di un rivoluzionario cambiamento.
Fanno bene i collaboratori di InchiostroVerde (da Giuseppe Aralla a Massimo Ruggieri) a puntare il dito contro coloro che hanno venduto una merce non ancora il loro possesso (la chiusura dell’Ilva e riconversione economica) salvo poi ripiegare su una più mite richiesta di ambientalizzazione. Ma la verità va detta tutta: se M5S a Taranto ha preso percentuali ben oltre il 40%, non bisogna dare per scontato che tutti i suoi elettori volessero la fine del Siderurgico. Pensate a quanti operai Ilva hanno votato per il movimento di Di Maio senza immaginarsi una prospettiva così drastica.
A allora dobbiamo porci una domanda fondamentale: cosa vuole davvero Taranto per il suo futuro? E’ pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo e a superare i propri limiti smettendo di dare sempre la colpa ad altri? E, soprattutto: qual è la vera Taranto? Quella delle centinaia, a volte migliaia, di persone che partecipano ai sit-in contro l’inquinamento (il prossimo è in programma il 6 settembre in piazza della Vittoria) o quella che diserta sistematicamente tutte le manifestazioni?
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