TARANTO – Un’opera enorme, alta poco meno di 80 m, lunga 700 m e larga 260 m, che utilizzerà oltre 60.000 t di acciaio e 200.000 t di calcestruzzo: questa la struttura che coprirà parte dei parchi minerali di Ilva e parte del nostro orizzonte. Verrà costruita utilizzando lo stesso acciaio prodotto dagli altiforni.
In biologia un processo del genere verrebbe classificato tra quelle forme di riproduzione asessuata, probabilmente una gemmazione, tipica degli organismi semplici, quali protozoi, alcune piante e alcuni animali quali cnidari e poriferi (spugne).
Siamo davanti ad un processo evolutivo della grande industria capace di autorinnovarsi provvedendo essa stessa a produrre i pezzi necessari alla propria struttura che si autocompongono. In un certo senso la lotta per la sopravvivenza che finora interessava esclusivamente organismi biologici ha subìto un salto di livello mai visto.
L’industria si autoripara e si riproduce autonomamente: è il sogno e la grande paura della robotica. Da adesso in poi cambia tutto: dovremo abituarci a considerare Ilva soggetto pensante e animato. La consapevolezza del sè ha pervaso il mostro, come se si trattasse di un Frankenstein d’acciaio.
Ilva da adesso in poi potrà modificarsi, ingrandirsi o rimpicciolirsi a seconda delle esigenze produttive e a seconda delle necessità potrà sfornare acciaio da utilizzare nella sua stessa struttura. Il vecchio che si autorigenera in un rinnovamento strutturale che supera i limiti del tempo.
Quell’industria ormai superata, vecchio macinino, come qualcuno l’aveva troppo frettolosamente definita, si dimostra capace di una seconda giovinezza, trovando in se stessa la forza del cambiamento nella lotta per sopravvivere.
Oggi tocca alla struttura che coprirà i parchi minerali, domani potrebbe essere una qualunque altra struttura necessaria nel processo produttivo ad autorigenerarsi per conquistare una nuova vita e questo processo si avvicinerà sempre più al mito del l’immortalità.
D’altronde il tempo è un concetto relativo per Ilva che è riuscita a superare ancora indenne l’anacronismo dei suoi impianti che sfruttano tecnologia del secolo scorso. Siamo testimoni di un qualcosa di grandioso, di epocale che trascende qualunque giudizio di merito su procedure autorizzative e impatto paesaggistico.
Chiniamo ossequiosamente il capo di fronte a questa opera architettonica che Taranto si onorerà di ospitare e siamone fieri come se si trattasse della cupola del Brunelleschi del Duomo di Firenze o il profilo dell’ermo colle leopardiano e non insudiciamone la fama che porterà alla nostra città con le solite stucchevoli critiche. Grazie Ilva, grazie Calenda. Taranto è capace di apprezzare l’ingegno e la maestosità del progetto (e anche l’ironia contenuta in questo articolo).
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