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Taranto, vocazione industriale sul viale del tramonto?

Taranto città dalla vocazione industriale: è un’idea più diffusa di quanto si pensi. Forse è addirittura pensiero dominante che attraversa strati sociali molto diversi tra loro. Lo abbiamo sentito dire nel 2012 dall’allora presidente di Confindustria Squinzi che riteneva Taranto essenziale per confermare la vocazione industriale italiana, attribuendole quindi un ruolo di città operaia per eccellenza e lo sentiamo ribadire dai vari rappresentanti sindacali nell’ambito della vertenza occupazionale che li vede contrapporsi ai nuovi proprietari di Am Investco Italy.

Rappresentanti dei padroni e rappresentanti dei lavoratori (sottolineo rappresentanti) scommettono quindi sulla vocazione industriale di Taranto e fin qui nulla di strano, visto che di industria e per l’industria essi vivono e svolgono il proprio ruolo. Non chiederemmo di certo al macellaio se per caso non pensasse di diventare vegetariano. Ma l’idea che la nostra sia una città capace di fare solo industria è diffusa anche in altre categorie di popolazione, soprattutto in chi non vive a Taranto, in chi cioè non conosce a fondo questa città.

Un’enorme industria appoggiata al tessuto urbano che trasforma minerale per produrre acciaio in un processo tecnologico estremo, migliaia di operai con gli elmetti  capaci di simboleggiare la forza del lavoro e le lotte degli anni ’70. Una città che di industria si nutre, un territorio che offre ben poco oltre inquinamento e ciminiere: ecco cosa è Taranto e la sua vocazione industriale nella convinzione di tanti. Cos’altro potremmo fare se non industria? Turismo? Enogastronomia? Cultura? Green economy? Polo tecnologico? Università? Pesca? Agricoltura biologica?

Nulla di tutto ciò visto che siamo solo città operaia da oltre cinquant’anni, a detta di tanti. Riconversione economica e potenzialità inespresse del territorio sono relegate a ipotesi non degne di considerazione: la pensa così soprattutto l’intellighenzia italiana della finanza e una certa sinistra che non ha mai davvero appoggiato seri progetti di cambiamento. Taranto ultima vera città operaia, più di Torino, Porto Marghera, Napoli o Milano. Siamo in pratica un pezzo di archeologia industriale e sociale sotto certi punti di vista affascinante, strenuamente protetta soprattutto da chi ha nostalgia di un’Italia che non esiste più da almeno trent’anni.

Genova forse ha vera vocazione industriale, molto più di Taranto. Lì l’industria è cresciuta insieme al porto e con essi i lavoratori che da sempre di questo hanno vissuto, riuscendo a formare un blocco sociale omogeneo con una vera e propria identità caratterizzante. A Taranto, invece, non vi è stato un processo di crescita graduale della classe operaia. Quando si decise a tavolino di impiantare il siderurgico nel nostro territorio, la gran parte dei lavoratori fu strappata all’agricoltura. Operai al mattino e contadini al pomeriggio: questo furono i primi assunti dell’Italsider che considerarono l’industria solo come un’opportunità di crescita economica personale, in un Mezzogiorno decisamente povero di risorse.

La provenienza degli operai da tanti Comuni del circondario tarantino, anche molto distanti dal Capoluogo, ha inoltre frammentato la nuova classe sociale venutasi a formare negli anni ’60. Italsider e poi Ilva sono state, per migliaia di lavoratori, soltanto il luogo da frequentare per otto ore al giorno e poi lasciare insieme alla città ospitante per ritornare nei Comuni di appartenenza. Cosa avevano da condividere gli operai provenienti da Lizzano, Castellaneta, Scanzano Jonico, Palagiano, oltre che il lavoro? Essi non formavano un gruppo sociale omogeneo che vivesse le problematiche cittadine con partecipazione.

Taranto era per essi solo la città dell’industria e nient’altro. Un maggiore blocco sociale vi era e in parte continua ad esserci certamente in alcune aree urbane che hanno storicamente ospitato operai, come nel quartiere Tamburi. Vocazione industriale qui ha significato sopratutto degrado urbano e perdita di diritti di cittadinanza, in una zona della città fortemente penalizzata dalla mancanza di servizi e di altri sbocchi lavorativi. Qui l’industria ha rappresentato ricatto occupazionale e basta, altro che vocazione!

Proviamo a creare un’alternativa alle famiglie di operai che sono scesi in piazza nei giorni scorsi per affermare il proprio diritto a un lavoro dignitoso e alla tutela della salute e vediamo quanti di essi si mostrerebbero dispiaciuti di cambiare mestiere! La vera vocazione industriale a Taranto ce l’ha soltanto chi non vuol vedere cambi di rotta perché adagiato in una condizione di privilegio, chi vive con nostalgia la nascita della classe operaia, oppure chi non vive i disagi di un lavoro rischioso dal punto di vista sanitario.

Taranto è industria e basta: è un mantra che ha funzionato per tanti anni e che ora comincia a infastidire persino chi di Ilva vive. Penalizzati si, ma non fessi sono gli operai di Taranto! E neanche valga la motivazione economica a sostegno della vocazione industriale di Taranto. Tra le città della Puglia, la nostra non brilla certo per parametri economici particolarmente buoni. Siamo tra le città della Regione a più alta disoccupazione giovanile e a più basso reddito pro capite. A Taranto abbiamo subito un ricatto e ci siamo adattati per sopravvivere, questa la verità. E se davvero vocazione fu, ma ne dubito, non è mai troppo tardi per cambiare idea.

Giuseppe Aralla

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Giuseppe Aralla

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