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Ilva, al rione Tamburi prove tecniche di lotta comune con gli operai?

TARANTO – Paura, rabbia, incertezza, delusione, speranza:  diversi stati d’animo si leggevano negli occhi e nelle facce di chi protestava ieri sera in piazza Masaccio, al rione Tamburi, contro il piano occupazionale della futura Ilva in discussione in questi giorni presso il Ministero dello Sviluppo e contro il piano ambientale approvato con DPCM a fine settembre.

Per la prima volta, in maniera significativa, categorie sociali tradizionalmente contrapposte, si sono trovate unite a manifestare contro politiche industriali che lasciano scontenti tutti: comuni cittadini, operai, ambientalisti, genitori. Tante le madri di bambini che vivono in un quartiere inquinato dall’industria in cui lavorano i loro mariti: una condizione fino ad ora spesso tollerata in silenzio per quel sottile equilibrio che bilanciava rischio sanitario e salario garantito e che adesso, forse come mai, viene messa in discussione dalla perdita di certezze occupazionali.

Mamme, operai, ambientalisti, tutti insieme a protestare nella stessa piazza, in un intreccio di differenti aspettative per il futuro, uniti però dalla consapevolezza di un presente che lascia tutti insoddisfatti. La situazione attuale di Ilva ha molto avvicinato categorie sociali che fino ad ora erano più distanti: da una parte gli ambientalisti e i cittadini stanchi del degrado e delle malattie che vorrebbero la chiusura dell’acciaieria, dall’altra gli operai che di acciaio vivono.

Gli estremi si sono finalmente toccati e hanno cominciato a ragionare sulla necessità di cercare una soluzione valida per tutti. Quale questa soluzione? Chiusura? Riconversione? Applicazione completa delle misure ambientali? L’impressione è che sempre più, tra i lavoratori della grande industria, si cominci a fare strada l’idea che prima o poi questa fabbrica arriverà al capolinea e che quindi tanto vale cominciare a credere a soluzioni alternative e almeno a ragionare di questa ipotesi.

La maggiore consapevolezza del rischio sanitario proprio e dei familiari, l’incertezza occupazionale, la possibile riduzione dei salari e dei diritti acquisiti, ambienti di lavoro spesso non all’altezza degli standard europei (come spesso denunciato dagli stessi lavoratori e dai sindacati), hanno rotto quel legame così forte che rendeva un tutt’uno industria e operai, tanto da rendere questi, per tanto tempo, chiusi a qualunque idea di cambiamento. Non si può non ricordare, però, il ruolo essenziale del comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, nato nel 2012, capace, per la prima volta in maniera deflagrante, di rappresentare all’interno e all’esterno di Ilva la condizione degli operai costretti a convivere con la necessità del lavoro e un rischio sanitario elevato.

Dal 2012 è come se fosse caduto il muro di Berlino che divideva Ilva dalla città di Taranto: due mondi diversi cominciavano a conoscersi e a capire che l’influenza reciproca era enorme. La città prendeva piena consapevolezza dei danni da inquinamento causati dall’industria e le problematiche della città entravano in Ilva attraverso gli operai che cominciavano a discuterne e a contestualizzarle. Non sappiamo se questo dialogo tra mondi tradizionalmente separati migliorerà ulteriormente, tanto da arrivare a generare aspettative e lotte comuni.

Noi ci speriamo perché crediamo che la base per il cambiamento debba essere la più grande possibile e soprattutto debba coinvolgere tutti gli attori del dramma e del ricatto che vive Taranto. Ogni cambiamento inizia sempre nelle coscienze ed è un processo graduale che attraversa la società in modo trasversale. Chi rema contro questo processo di maturazione collettiva dei tarantini farà di tutto per bloccarlo: dobbiamo essere bravi a non cadere nelle trappole dei soliti poteri forti.

Giuseppe Aralla

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