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Ilva e veleni, noi tarantini come cavie da laboratorio

TARANTO – Quanti metalli pesanti sono presenti nei capelli dei tarantini? Quanta diossina riescono ad accumulare i bivalvi? Quale maggiore probabilità ha un cardiopatico di morire d’infarto in una giornata ventosa? Sono quesiti a cui le tante ricerche effettuate sul nostro territorio hanno dato risposta negli ultimi anni. Taranto è una delle realtà più citate nei congressi sull’inquinamento e tanti sono ormai gli studi, le analisi statistiche che vengono presentate dai ricercatori. Tutte descrivono i danni subiti dalla popolazione ionica in seguito all’esposizione alle sostanze tossiche di origine industriale.

Noi cittadini siamo entrati a far parte di un complesso modello di studio che, grazie all’aiuto dei sistemi informatici, fornisce analisi (a posteriori) su patologie e mortalità in relazione all’esposizione agli inquinanti subita negli anni. E allora possiamo ora sapere che soffriamo di più di malattie renali, moriamo di più di malattie cardiache e respiratorie,  risentiamo degli effetti degli inquinanti anche a trent’anni di distanza, vi è un eccesso di tumori nella popolazione, le donne soffrono più di quanto dovrebbero di endometriosi e così via.

Potremmo citare una serie innumerevole di danni per la salute che l’inquinamento ha provocato ai tarantini. All’ultimo Congresso ISEE (International Society for Environmental Epidemiology) svoltosi a Roma dall’1 al 4 settembre, sono stati presentati alcuni studi che analizzano, per esempio, gli effetti a breve e lungo termine su ricoveri ospedalieri e mortalità correlati all’esposizione a polveri sottili e anidride solforosa, la distribuzione spaziale della malattia renale nei quartieri di Taranto, le concentrazioni di metalli nel cuoio capelluto degli abitanti del Borgo, le variazioni di mortalità in base ai livelli di PM10 nelle zone di residenza.

A parte qualche eccezione, la gran parte degli studi fino a questo momento pubblicati che analizzano gli effetti degli inquinanti sulla salute dei tarantini sono retrospettivi, riferiti cioè agli anni passati. Questo accade perché vi è un ritardo (assolutamente normale) nell’analisi delle cartelle cliniche dei pazienti. Solo tra tre anni, per esempio, sapremo in modo accurato, quale è stata la mortalità nel 2016 per le singole cause e il numero e tipo di ricoveri ospedalieri. Senza nulla togliere alla validità e necessità di questo tipo di analisi, la sensazione che ogni tarantino potrebbe provare è quella di sentirsi come una cavia da laboratorio.

Come le cavie siamo infatti indifesi rispetto all’esposizione agli inquinanti e come cavie ne subiremo gli effetti che potranno in seguito essere valutati. La domanda che sorge spontanea è questa: è etico valutare a posteriori gli effetti nefasti degli inquinanti su una popolazione? La gran parte degli studi fino a questo momento pubblicati ci dicono che a Taranto vi è un eccesso di mortalità e ricoveri nelle aree più compromesse dalla presenza di veleni. Ancora non abbiamo evidenza che la riduzione di produzione industriale abbia portato vantaggi per la salute.

Gli effetti della riduzione delle emissioni inquinanti potrebbero non essere significativi in una popolazione già compromessa da anni di convivenza con la grande industria. E allora ci chiediamo a cosa servono queste analisi, questi studi, se poi non portano, come conseguenza, alla chiusura delle fonti inquinanti? E se tra tre anni sapremo che nel 2016 la situazione di danno per la salute è rimasta simile a quella dei periodi precedenti, cosa faremo allora? Aspetteremo ancora nuovi dati nell’attesa di un ipotetico miglioramento? No, bisogna avere il coraggio di voltare pagina subito, prima che sia troppo tardi.

Giuseppe Aralla

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