Mi mangio le unghie, posso smettere? – Il segnale di un disagio interiore – Elisa Albano

L’abitudine compulsiva a mangiucchiarsi le unghie, anche fino a far divenire doloranti e sanguinanti le dita, prende il nome di onicofagia. A ben vedere, l’onicofagia, viene considerata una patologia comportamentale vera e propria che a quanto pare riguarderebbe soprattutto bambini e adolescenti ma in realtà coinvolge anche tantissimi adulti. Tuttavia, nonostante l’alto numero di soggetti dediti a questa pratica, sicuramente insana e dannosa, sembra che non vi sia ancora un’unica direttiva sul trattamento e soprattutto non vi sia una grande chiarezza sulle sue cause.

Ma procediamo per ordine. Intanto, specifichiamo che si tratta di un comportamento automatico, quasi inconsapevole ma irrefrenabile che si compie soprattutto nei momenti di maggiore stress e ansia, anche se non sono rari i casi in cui i soggetti riferiscono di dedicarsi a questa pratica quando si sentono o dichiarano di sentirsi rilassati, concentrati, o quando sono soli con se stessi e sovrappensiero se non addirittura annoiati.

Spesso è il soggetto stesso a minimizzare con se stesso e con gli altri il proprio disturbo perché lo considera una semplice abitudine appresa di non particolare gravità e dalla quale potersi liberare con un semplice atto di volontà. Ma in realtà proprio così non è. L’incapacità di controllo degli impulsi che si riversa su questo atto, nasconde problematiche psicologiche ben più complesse e profonde e di non gestione autonoma.

Alcuni suggerimenti più comuni e banali che vengono dati per una risoluzione di questo comportamento anomalo prevedono, soprattutto per bambini e adolescenti, l’uso di smalti o di tinture amare che scoraggino dal portarsi le dita alla bocca. Inoltre, c’è chi suggerisce di giocherellare con un oggetto in modo da avere le mani costantemente occupate, oppure di fare sport, tenersi in movimento e crearsi delle distrazioni.

Ovviamente, tutte queste pratiche possono anche risultare utili, specialmente in una prima fase, quindi come primo intervento, ma di certo non possono risultare risolutive. Se l’onicofagia è la manifestazione di un disagio interiore bisogna quanto meno comprendere la natura di tale disagio, per prendere piena consapevolezza del problema ed evitare che questo sfoci poi in altri comportamenti compulsivi di diversa natura. Dopodiché anche questi metodi spiccioli possono andare bene, come supporto ad un lavoro che si svolge su se stessi a livello più profondo.

Oltre l’interpretazione generica di una condizione interiore di ansia e di stress, vanno analizzati anche altri aspetti, come ad esempio, la forte componente autolesionistica di questo comportamento. E a mio parere è proprio questo il fulcro sul quale concentrarsi per andare al cuore del problema. Di cosa ci si vuole punire? Quale senso di colpa ci si porta dietro? Cosa, soprattutto, non si riesce a perdonare a se stessi? Cosa si vorrebbe rimettere a posto e non si riesce a fare?

Se analizziamo minuziosamente l’atto e lo stimolo che lo fa scattare, potremmo dire che il soggetto non sopporta il fuori posto, non accetta quel qualcosa che simbolicamente non dovrebbe esserci, nella sua vita o nelle sue dita. Tutto deve rientrare in una certa linea e in una certa piattezza. Come a dire: “Questa pellicina che cresce e questa unghia che continua ad emergere, deve restare giù, invisibile e contenuta, ad ogni costo”. Lo stesso discorso può valere per altri disturbi comportamentali correlati come la tricotillomania, cioè il bisogno compulsivo di giocherellare o strapparsi capelli e peli. Cosa si vuole tenere sotto controllo? Da cosa ci si vuole liberare e nello stesso tempo nascondere? Da cosa ci si vuole pulire?

Molto spesso questi sono soggetti con un forte bisogno di emergere e affermare se stessi ma con l’incapacità di farlo nella vita di tutti i giorni. Quindi è come se volessero simbolicamente mantenere sotto controllo il loro conflitto interiore, mantenendo sempre a un certo livello ciò che spontaneamente cresce e si impone. L’autodistruttività diviene un modo per impedire a se stessi di essere liberi emotivamente e di vivere la propria vita ma è anche un modo per punire se stessi per qualcosa di sbagliato che si è fatto in passato o si presume di aver fatto e che non si riesce ancora a lasciar andare.

Quindi, è solo comprendendo quel qualcosa di molto profondo che spinge ad agire in tal senso, che si può andare oltre. E le strade sono due, entrambe valide: accettarsi, volersi bene e amarsi così come si è, con i propri presunti errori o manchevolezze oppure sviluppare una maggiore capacità di azione e di decisione, vivendo con coraggio e serenità la propria vita, vincendo timidezze e passività e liberando le proprie emozioni.

A cura di Elisa Albano

Psicologa – Scrittrice

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