ROMA – Non e’ possibile dedurre automaticamente che il danno arrecato dallo stabilimento Ilva di Taranto abbia generato un profitto illecito alle aziende dei Riva, anzi è essenziale verificare “se quel danno si sia concretizzato anche in un vantaggio patrimoniale oggettivamente riconoscibile perchè direttamente scaturente dalla commissione del reato-presupposto”. Lo sottolinea la Cassazione nella motivazione della sentenza con la quale, lo scorso 20 dicembre, ha accolto il ricorso della Riva Fire, la holding della famiglia, e Riva Forni Elettrici, ordinando la restituzione dei beni sequestrati nell’ambito dei procedimento per disastro ambientale a carico di Emilio Riva e dei suoi figli.I beni mobili e immobili nelle disponibilita’ della famiglia e delle azienda a questa riconducibili fino a 8,1 miliardi erano stati posti sotto sequestro nel presupposto che dall’omissione di interventi per limitare l’inquinamento ed i danni ambientali dello stabilimento, l’impresa abbia ricavato un vantaggio patrimoniale. Un profitto ingiusto pari ai costi che avrebbe dovuto sopportare per adeguare gli impianti alle migliori tecnologie disponibili. Nel ricorso i difensori dei Riva, gli avvocati Franco Coppi e Carlo Paliero, hanno tra l’altro contestato che “non può confondersi la tassativa nozione di profitto con la quantificazione ‘prudenziale’ dei costi per l’attuazione di obblighi neppure sussistenti all’epoca della condotta”. E su questo concorda la Cassazione che, nella sentenza depositata oggi n. 3635, sottolinea come avrebbero dovuto essere estromessi dalla misura cautelare le condotte associative precedenti all’entrata in vigore della legge sulle violazioni in materia ambientale del 2011 che ha ampliato le fattispecie punibili. In secondo luogo – secondo la sesta sezione penale – va verificata la correlazione causale “tra le diverse violazioni in materia ambientale e le componenti del relativo profitto” che il decreto di sequestro ha individuato nell’entita’ dei risparmi di spesa. Nel provvedimento del gip di Taranto, tra l’altro, ricorda la Corte, “l’individuazione del profitto è stata erroneamente operata attraverso l’integrale equiparazione delle sue componenti con la prospettata quantificazione delle somme inerenti al risparmio dei costi nel necessario adeguamento degli impianti dello stabilimento siderurgico”. (Ansa)
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