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Ilva, i conti senza l’oste – Nessuna certezza sull’utilizzo dei soldi sequestrati

TARANTO – Non è un caso se con l’ultimo decreto approvato in materia di Ilva (“Disposizioni urgenti per la tutela dell’ambiente, del lavoro e per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale”), il governo abbia posticipato al 28 febbraio 2014 il termine ultimo per l’approvazione del piano ambientale presentato dal comitato dei tre esperti lo scorso 10 ottobre (seppur privo della parte inerente la gestione delle acque e dei rifiuti) con un mese di ritardo rispetto ai 60 giorni previsti dalla legge 89 del 4 agosto, che ne prevedeva la consegna entro 60 giorni dalla nomina dei tre (avvenuta lo scorso 14 luglio).

Come riportato ieri, il termine del 28 febbraio in realtà appare una mera indicazione, visto che nel testo del decreto si legge che “il ministro dell’ambiente, al fine della formulazione della proposta acquisisce, sulla proposta del comitato di esperti il parere del Commissario straordinario e quello della Regione competente, che sono resi entro sette giorni dalla richiesta, decorsi i quali la proposta del Ministro può essere formulata anche senza i pareri richiesti. La proposta del Ministro dell’ambiente è formulata entro quindici giorni dalla richiesta dei pareri e comunque non oltre quarantacinque giorni dal ricevimento della proposta del comitato di esperti. Il piano è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, formulata entro quindici giorni dalla presentazione del piano”. I nostri calcoli ci hanno portato direttamente al 30 aprile 2014. Una data che è bene tenere a mente.

Del resto, come specificato già dalla legge 89/2013 del 4 agosto ed ulteriolmente chiarito nell’ultimo decreto, soltanto dopo l’approvazione del piano ambientale avverrà la definitiva stesura del piano industriale. Questo perché, prendendo per buono che tutto ciò accadrà davvero, soltanto una volta chiariti tutti gli interventi da svolgere e soprattutto la loro quantità e qualità, si potrà effettivamente predisporre il piano industriale (che Bondi ha affidato alla McKinsey & Company, nota multinazionale di consulenza di direzione, che negli anni ha inanellato una serie di insuccessi, tanto da prendersi le critiche del Financial Times e del The Economist, oltre ad avere l’onore di libri dedicati ad “una serie di errori grossolani e disastri che si imputano ad errori di consulenti della McKinsey”).

Nella mente di Bondi e Ronchi infatti, oltre che del governo, gli interventi previsti dal piano ambientale (che secondo quanto dichiarato dal sub commissario in un documento consegnato anche alla Commissione ambiente del Comune di Taranto la scorsa settimana prevede impegni immediati per 500 milioni di euro) dovranno essere realizzati unicamente grazie al credito finanziario che arriverà dalle banche (Intesa San Paolo e Gruppo Ubi su tutte, visto che Ilva ha ancora debiti da saldare con quest’ultime), da un eventuale intervento della Cassa Depositi e Prestiti, e dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) attraverso i canali preferenziali per il settore siderurgico previsti dal Piano dell’acciaio approvato lo scorso giugno.

Ma quanto c’è di certo e di vero in tutto questo? Al momento, assolutamente nulla. Attualmente, l’unica cosa certa è che l’Ilva Spa non dispone della liquidità necessaria per far fronte agli interventi previsti. Può continuare a produrre acciaio e a venderlo, ed a pagare i dipendenti (sino a quando non è dato sapere visto che a fine marzo scadono i contratti di solidarietà sottoscritti un anno fa), ma oltre non può spingersi. Bondi, dal canto suo, un exit strategy l’aveva anche trovata: offrire alle banche, in cambio del prestito, i beni immobili delle controllate dell’Ilva Spa (di cui è diventato commissario grazie all’art. 12 della legge sulla Pubblica amministrazione interamente dedicato all’Ilva): Inse Cilindri, Celestri, Ilva Servizi Marittimi e Taranto Energia, i cui conti però furono sequestrati nell’ambito del provvedimento che a settembre scorso colpì la Riva Acciaio.

Non potendo più essere i beni di queste società una garanzia certa, Bondi ha dovuto prendere tempo. Ed attendere una nuova “idea”. Che è contenuta nell’ultimo decreto: entrare in possesso dei 2 miliardi di euro che la Procura di Milano ha sequestrato al gruppo Riva nell’ambito dell’inchiesta per forde fiscale (truffa ai danni dello Stato e trasferimento fraudolento di valori e appropriazione indebita ai danni dei soci di minoranza). Risorse che al momento si trovano nel Fondo unico della giustizia. E che secondo Ronchi saranno la garanzia con cui convincere le banche a concedere il prestito per finanziare e realizzare i lavori di risanamneto dell’area a caldo (del genere: quei 2 miliardi saranno vostri).

Perché Ronchi afferma convintamente che le cose andranno così? Perché il decreto approvato martedì prevede che in caso di eventuale proscioglimento nel processo che verrà, il gruppo Riva non potrà richiedere indietro le somme sequestrate, in quanto quelle impiegate per l’attuazione dell’AIA “non saranno comunque restituibili”. D’accordo. Ma com’è possibile che Bondi ottenga oggi i due miliardi sequestrati al gruppo Riva, quando il processo non é ancora iniziato e nessuno sa come andrà a finire? Quelle risorse, a meno che non venga cambiata la giurisprudenza italiana, sono congelate sino all’ultimo grado di giudizio. Si è anche ventilata l’ipotesi di un aumento di capitale per far fronte agli impegni previsti dal risanamento: ma chi è costui che dovrebbe immettere capitale fresco nelle casse dell’Ilva Spa non è dato sapere. A nostro modo di vedere, ci si sta infilando nell’ennesimo vicolo cieco. Al termine del quale i nostri prodi rischiano di trovarsi di fronte un invalicabile muro. Di acciaio.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 06.12.2013)

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