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Ilva, il gas arriva dall’Est?

TARANTO – Nei giorni scorsi, a seguito dell’annuncio da parte dell’Ilva sulla sperimentazione in atto nel ciclo produttivo del siderurgico, ci siamo posti la seguente domanda: è davvero fattibile sostituire il carbon coke con il metano? Stando alle informazioni in nostro possesso infatti, si deve parlare più precisamente di “shale gas”: meglio conosciuto come “gas da argille, gas metano estratto da giacimenti non convenzionali in argille parzialmente diagenizzate, derivate dalla decomposizione anaerobica di materia organica contenuta in argille durante la diagenesi”. Questo gas in natura è intrappolato nella microporosità della roccia. L’argilla però, è scarsamente permeabile, ragion per cui questi giacimenti “non possono essere messi in produzione spontanea”, come avviene per quelli convenzionali, ma necessitano di trattamenti spesso altamente inquinanti per aumentarne artificialmente la permeabilità in prossimità dei pozzi di produzione.

Operazione difficilmente realizzabile all’interno dell’Ilva. Per questo, la seconda domanda che ci siamo posti è stata: da dove intenderebbero andare a prendere questo gas Bondi, Ronchi e i tre esperti nominati dal ministero dell’Ambiente? Detto che questo tipo di sperimentazione (che stando alle parole dei dirigenti Ilva pare stia dando buoni risultati in termini di “qualità e quantità”) è già stata bocciata da alcuni esperti del settore, pur restando nel campo delle ipotesi, in effetti c’è qualcuno che potrebbe far arrivare il gas necessario all’Ilva: il TAP (Trans-Adriatic Pipeline), il tanto discusso progetto per la costruzione di un gasdotto transadriatico che collegherà la Grecia alle coste meridionali dell’Italia (precisamente in località San Foca in provincia di Lecce) passando attraverso l’Albania e il mar Adriatico, permettendo così al gas proveniente dalla regione del mar Caspio di raggiungere direttamente i mercati europei.

Proprio lo scorso 10 settembre, è stato consegnato lo Studio di Impatto Ambientale e Sociale (Esia) al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Gli azionisti del progetto TAP sono la BP, società petrolifera inglese leader nel mondo (20%), la compagnia petrolifera di Stato della Repubblica dell’Azerbaigian SOCAR (20%), la Statoil, società di servizi energetici internazionale attiva in 34 paesi (20%), la società di infrastrutture del gas belga Fluxys (16%), la francese Total (10%), la E.ON, una delle più grandi società al mondo proprietarie e investitrici di gas e di energia (9%) e l’operatore energetico svizzero  Axpo (5%). Cosa c’entra il progetto TAP con il gas per l’Ilva? Potrebbe centrare eccome. In quanto, una volta arrivato in Italia nella provincia di Lecce, l’enorme gasdotto verrebbe allacciato alla rete italiana di trasporto del gas gestita da SNAM ReteGas. La quale, nel 2004, ha presentato il progetto del gasdotto Rete Adriatica, diviso in cinque tratti funzionalmente autonomi, in grado cioè di svolgere una propria funzione indipendentemente dagli altri. Ognuno dei singoli tratti ha ottenuto parere favorevole di compatibilità ambientale, con l’emissione del relativo decreto di VIA (Va-lutazione di Impatto Ambientale).

Il primo tratto, collegherà Massafra (TA) e Biccari (FG), si snoda per 195 chilometri lambendo la Basilicata. Nel tratto relativo all’Abruzzo, Lazio, Umbria e Marche, su 28 località attraversate dal progetto di metanodotto, 14 sono classificate in zona sismica 1 e 14 in zona sismica 2. Anche la centrale di compressione, localizzata a Sulmona, ricade in zona sismica di primo grado. Per questo il progetto ha già ricevuto diverse bocciature, compresa quella della Regione Abruzzo, oltre che una serie di interrogazioni parlamentari. Come detto, siamo nel campo delle ipotesi. Visto che non è ancora detto che i due progetti in questione, il TAP e il gasdotto della Snam ReteGas, vedano mai la luce. Ma un collegamento tra i due c’è e ci riguarda molto da vicino. Inoltre in Puglia, dai dati del ministero per lo Sviluppo economico, si evince che la produzione annua di gas da pozzi situati a terra è pari a circa 300 milioni di metri cubi: ad essi vanno aggiunti 850 milioni di metri cubi dalle piattaforme in mare. Troppo pochi, comunque, per l’utilizzo previsto dall’Ilva: ovvero produrre con questo sistema almeno due milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Ecco perché l’azienda potrebbe avvantaggiarsi di questi due progetti. E siccome in questo paese può accadere di tutto, è bene iniziare a fare tutte le ipotesi possibili per capire cosa ci attende nel prossimo futuro. Ammesso e non concesso che l’Ilva abbia ancora un futuro a Taranto. Cosa di cui noi dubitiamo fortemente. Da sempre.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 01.10.2013)

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