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Ilva, una truffa a gestione famigliare (Il Manifesto)

TARANTO – Quanto “scoperto” dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Milano sull’impero economico del gruppo Riva, altro non è che la punta di un iceberg molto più profondo e duro da scalfire. Il sequestro preventivo emesso dal gip del tribunale di Milano, un miliardo e duecento milioni nascosti in paradisi fiscali e poi rientrati in Italia attraverso lo scudo fiscale del 2009, ha reso noto un metodo di gestione dell’impresa privata del mondo capitalistico familiare spiccatamente italiano.

Soldi e strumenti finanziari che sarebbero “provento di appropriazione indebita aggravata e continuata, dichiarazione fraudolenta, false comunicazioni sociali e infedeltà patrimoniale”: in sostanza il denaro sarebbe stato “drenato dalla società FIRE Finanziaria (trasformatasi prima in Riva Acciaio e poi in Riva FIRE)” e trasferito a società di partecipazione estere e società veicolo offshore “a seguito di tre operazioni di cessioni di partecipazioni industriali tutte conseguenti all’acquisizione dell’Iri dell’Ilva. La prima risalirebbe al 1995, la seconda nel 1997 e la terza al 2003-2006”. Del resto, nei mesi scorsi avevamo già dato notizia delle varie operazioni finanziarie avvenute all’interno del gruppo Riva FIRE, oggi Riva Forni Elettrici, che hanno portato ad una serie di scorpori e separazioni tra le varie attività del gruppo, conclusesi lo scorso gennaio con la nascita dell’Ilva Spa come società autonoma rispetto al resto delle proprietà e delle aziende del gruppo, sparse tra Italia, Europa e resto del mondo.

Come detto, dunque, una gestione tutta familiare quella dei Riva: un vero e proprio “consiglio di famiglia”, risalente ad un patto siglato nel lontano 2005 tra i vari componenti. Che non può certo sorprendere oggi chi, per anni, come le istituzioni centrali e locali, i sindacati, Confindustria e Federacciai, negli anni non ha opposto resistenza alcuna alla gestione padronale del siderurgico. Sposandone in pieno, peraltro, le campagne propagandistiche che esaltavano il lavoro svolto dal ’95 ad oggi. Ad esempio, nessuno ha mai chiesto conto di come sia stato investito il famoso miliardo per l’ambientalizzazione della grande fabbrica. Lo slogan, per anni, è stato questo: “la società ha guadagnato 4,2 miliardi e ne ha investiti nell’Ilva di Taranto 4,5, più di quanto ha guadagnato in questi anni e di questi oltre un miliardo per l’ambiente”.

L’inchiesta della procura di Milano ha quindi smascherato un artifizio del tutto dialettico, visto che l’AIA rilasciata dal ministero dell’Ambiente lo scorso 26 ottobre, prevede lavori per quasi 4 miliardi di euro. Attività che a tutt’oggi non hanno preso il via in quanto l’Ilva non ha ancora presentato il piano investimenti che garantisca la copertura finanziaria dei lavori di risanamento da realizzare entro il 2015. Così come nulla è dato sapere sul bilancio 2012 e sul piano industriale: attualmente il neo ad dell’Ilva Spa, Enrico Bondi, si è chiuso in un silenzio ermetico dai foschi presagi. Inoltre, l’iniziativa della procura di Milano rischia di generare inutili speranze nei cittadini di Taranto.

Posto che si tratti di un sequestro preventivo e non definitivo (per esserlo si dovrà concludere un processo non iniziato e che potrebbe durare anni. ndr), pensare che quei soldi saranno investiti per la bonifica dell’azienda e del territorio ionico, è molto più che un’utopia. Quei soldi spettano al ministero delle Finanze, che una volta ottenuto quanto gli spetta, dovrebbe eventualmente destinare quelle somme in un moto di generosità mai vista, al ministero dell’Ambiente: il quale a sua volta dovrebbe decidere di utilizzarle come parziale risarcimento danni nei confronti del territorio tarantino. Il miliardo di euro, inoltre, fungerebbe soltanto come punto di partenza per un intervento che esige ben altre somme. Per troppi anni si è rimasti a guardare o a far finta di non vedere. E questi sono i risultati.

Gianmario Leone (Il Manifesto)

 

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