L’azienda in una nota diffusa ieri giudica questa operazione “palesemente contraria alla legge 231 che prescrive sia il diritto all’esercizio di impresa che la commercializzazione da parte dell’azienda di beni sequestrati. Le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal GIP e dal Tribunale non fanno venir meno e non sospendono la legge in vigore che deve quindi essere applicata e alla quale Ilva intende attenersi”. Per questo, come ampiamente previsto, l’azienda conferma che impugnerà in ogni sede il provvedimento del gip del 14 febbraio scorso. L’ira funesta dell’azienda è del tutto evidente: “Ilva non intende dare il proprio consenso alla commercializzazione dei prodotti da parte di altri soggetti perché lesivo del diritto di impresa e, dal momento che diversi ordini sono stati cancellati negli ultimi mesi dai clienti per l’indisponibilità della merce, si riserva di chiedere i danni a chi dovesse risultarne responsabile”.
Questo vuol dire che, ancora una volta, difficilmente i custodi giudiziari si potranno avvalere della consulenza dell’ufficio commerciale dell’azienda per reperire tutti i contratti e contattare i committenti. Inoltre, a fronte di possibili disdette, i custodi giudiziari dovranno anche vedersela da soli per rintracciare eventuali nuovi acquirenti interessati alla merce in vendita. Non solo. Perché quanto minacciato dall’azienda potrebbe aprire il campo anche a spiacevoli episodi di insubordinazione: il che sarebbe davvero ridicolo oltre che fuori luogo. Il problema, quindi, è ancora una volta tutto economico. L’Ilva vuole quegli 800 milioni e pretende di farne ciò che vuole, pur avendo promesso di investire il tutto nell’ottemperanza della prescrizioni AIA. Ma come affermava Oscar Wilde, “l’uomo può credere all’impossibile, non crederà mai all’improbabile”.
G. Leone (TarantoOggi, 22.02.2012)
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