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Ilva, un 2013 di presagi funesti

TARANTO – In questi giorni di festa, Taranto é una città ferma. Anestetizzata dal clima di festa e da un cielo plumbeo carico di un’umidità che accentua la sua secolare fama di “molle Tarentum”, è come sospesa in attesa che si concluda questo nefasto 2012, nella speranza che l’anno in arrivo porti in dote chissà quale beneficio o cambiamento. Si attende dunque, ma lo si fa in tono dimesso, quasi rassegnato. Come se nulla dipendesse dalla nostra volontà di cambiare, di prendere in mano il futuro di questa città e renderlo migliore, diverso. Si resta in attesa che qualcheduno decida ancora una volta per noi. Ma questa volta, a decidere, potrebbe non essere lo Stato. Del resto, dopo il decreto ‘salva-Ilva’, quello che si “doveva fare” per salvare l’Ilva è stato fatto.

Stavolta, a giocare a carte scoperte, potrebbe essere il gruppo Riva. Che tanti, troppo spifferi, danno pronto all’annuncio di un prevedibile passo indietro. Che in parole povere vorrebbe dire alzare bandiera bianca e confermare quanto diciamo sin dalla scorsa estate: ovvero l’impossibilità di effettuare gli investimenti necessari per il risanamento degli impianti dell’area a caldo. Che l’AIA tramutata in decreto legge dal governo stima in oltre tre miliardi di euro nei prossimi tre anni. Del resto, nella pseudo lettera apparsa nella giornata dello scorso 21 dicembre a firma della famiglia Riva, non vi è accenno alcuno ad un impegno futuro nello stabilimento di Taranto e della sua attività. Non è chiaro chi abbia scritto la missiva, visto che il patron Emilio è ai domiciliari, così come il figlio Nicola, mentre il primogenito Fabio è ancora latitante e per questo inseguito da un mandato di cattura europeo: sono tutti accusati di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale.

Nella lettera si legge, ad esempio, che “il Governo e il Parlamento hanno riconosciuto il ruolo strategico dell’Ilva nella quale vediamo il presente e il futuro della siderurgia italiana, che vuole coniugare rispetto dell’ambiente e della salute con il lavoro”. Vedono nell’Ilva il futuro della siderurgia italiana: ne parlano come di un qualcosa che non fosse di loro proprietà e la cui sopravvivenza non dipenda unicamente dagli investimenti che dovranno essere approntati con il tesoro di famiglia. “Non abbiamo mai voluto lasciare Taranto” scrivono i Riva: ma non dicono “non la lasceremo”. E in maniera oramai ridondante “ricordano”, a  noi smemorati, “di aver investito in 17 anni nel sito siderurgico 4,5 miliardi”. Di questi ingenti investimenti nessuno, nemmeno gli operai, hanno mai visto un riscontro oggettivo. Ma tant’é. Sostengono di stare “lavorando per assicurare questi investimenti e siamo fiduciosi di riuscirci”: ma non accennano ad alcun piano finanziario che certifichi tale promessa.

Ai sindacati metalmeccanici è stato detto che il piano è in fase di preparazione e che dovrebbe essere presentato entro la prima metà di gennaio. Si dicono “fiduciosi di riuscirci”, ma non certi di poterlo fare. Dunque, tutto è ancora incerto. Nessuno sa cosa accadrà di qui a breve. Anche perché, al di là dei movimenti nelle varie holding off shore del gruppo Riva, secondo il bilancio consolidato di Riva Fire, entro il 2012 e nei primi mesi del 2013, arriveranno a scadenza debiti finanziari a breve termine per 2,11 miliardi sui 2,79 miliardi di esposizione complessiva (tra le banche che vantano crediti dal gruppo, la più esposta sarebbe Intesa San Paolo, seguita a grande distanza dalla Popolare di Bergamo del gruppo UBI B). Una cifra enorme se si considera, fra le altre cose, che il gruppo Riva iscrive a bilancio disponibilità liquide per soli 171 milioni oltre a titoli e depositi a breve termine per 46 milioni. E se da un lato il dissequestro dei prodotti finiti e semilavorati (1.700.000 tonnellate pari ad un miliardo di euro) autorizzato dal governo garantisce una boccata d’ossigeno nell’immediato, certamente non certifica alcunché in merito all’immediato futuro.

Anche perché il gruppo Riva non accetterà mai di investire l’intero guadagno derivante dall’attività produttiva, per risanare uno stabilimento che loro stessi sanno perfettamente che non potrà mai essere compatibile con il rispetto dell’ambiente circostante e della salute degli operai e dei cittadini. Perché ciò potrebbe avvenire soltanto se l’Ilva fosse dislocata per intero in una landa desolata. Lontano decine di chilometri da un centro abitato. E con un piano finanziario di decine di miliardi alla voce “risanamento e bonifica degli impianti”. Qualcuno, ovvero chi è più consapevole della reale situazione dell’Ilva, invoca o sogna una nazionalizzazione della fabbrica d’acciaio: ma bisognerebbe spiegare il perché usare soldi di Stato (anche dei cittadini di Taranto) per ottemperare lì dove dovrebbero essere utilizzati soltanto le risorse finanziarie di un gruppo privato che si è arricchito a scapito di un intero territorio.

Lo scriviamo dallo scorso agosto: il pericolo più concreto per l’Ilva è che i Riva si disimpegnino. Lo scriviamo, inascoltati, da anni: l’Ilva a Taranto non ha futuro. Che sia oggi, tra un anno, cinque o dieci, è destinata a chiudere. Il futuro, è altrove. Nelle alternative economiche esistenti sul territorio (porto e aeroporto) che però vanno difese e sostenute con forza. Nelle risorse del territorio: il mare e la filiera agroalimentare. Nella sua storia: nel turismo culturale che altrove avrebbe già fruttato miliardi su miliardi. E negli uomini e nelle donne che amano davvero questa città. Se non faremo questo, non avremo alcun futuro.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 27-12-2012)

 

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