L’Ilva ricatta: in migliaia senza lavoro. Ma il governo la salva ancora

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TARANTO – “A seguito del rigetto odierno da parte del gip della richiesta di Ilva dell’applicazione del decreto legge 207 del 3 dicembre 2012, ILVA comunica le drammatiche conseguenze che tale decisione comporta per i livelli occupazionali e per la situazione economica dell’azienda”. A leggere l’incipit della nota diramata dall’Ilva nella tarda serata di ieri, sembra quasi che il gruppo Riva sia vittima della magistratura tarantina.

Peccato che la realtà sia totalmente diversa. E che ancora una volta l’azienda torni a brandire l’arma del ricatto occupazionale, dando vita all’ennesima rappresaglia sociale che va a colpire direttamente i lavoratori. A partire da quelli di Taranto: ovvero coloro i quali negli ultimi 17 anni hanno dato la loro vita (in termine di salute e non solo) per produrre l’acciaio che serve a tenere in vita altre fabbriche in Italia e all’estero, oltre che a garantire un lavoro ad altre migliaia di operai: cosa che negli anni ha consentito al gruppo Riva di produrre utili per miliari di euro. Del resto, se la logica del profitto non rispetta in alcun modo chi ha realizzato con la forza lavoro il capitale, come può anche solo immaginare di rispettare la legge? Specie, poi, quando il governo ed il presidente della Repubblica pur di salvare il “tuo” e il “loro” profitto, sono capaci di andare anche contro la Costituzione?

Il gioco, infatti, è tutto qui: nonostante il sequestro dell’intera area a caldo e il divieto di proseguire l’attività produttiva vista la non facoltà d’uso degli impianti per quel fine ma soltanto per il loro risanamento, l’Ilva ha continuato a marciare a suon di colate, tanto da sfornare 1.700.000 tonnellate per un valore economico di circa 1 miliardo di euro, come se i Carabinieri non avessero mai apposto i sigilli agli impianti o l’ordinanza non fosse mai esistita. Ed ancora una volta, in tutto questo l’azienda è stata appoggiata dai sindacati, che hanno consentito si continuasse a produrre arrivando addirittura ad aggiornarci sulla reale capacità produttiva del momento del siderurgico. Abbiamo già dimenticato la guerra di cifre tra azienda e sindacati dei mesi scorsi?

“L’Ilva procede al 70%, no al 60%, no al 50% della sua capacità produttiva”: lo affermavano azienda e sindacati non curanti dell’azione della magistratura e della presenza nel siderurgico dei custodi giudiziari a cui era stata affidata la gestione degli impianti dell’area a caldo. Complice di tutta questa situazione, anche e soprattutto il ministero dell’Ambiente, che avrebbe dovuto intimare all’azienda lo stop alla produzione, invece che concedergli il riesame dell’AIA dell’agosto 2011, che sarebbe dovuta essere revocata come del resto prescrive la normativa sulle autorizzazioni ambientali perché non rispettata nelle varie prescrizioni come dimostrò la perizia chimico-ambientale.

Silenti, come sempre, anche le istituzioni locali: né il Comune, né la Provincia, né la Regione Puglia hanno intimato all’Ilva di fermare la produzione. Ciò che è accaduto ieri, quindi, non è altro che la logica conseguenza di tutto ciò: che in italiano significa non rispettare la legge. Secondo il gip Patrizia Todisco, che ha recepito il parere negativo espresso nei giorni scorsi dai pm, il decreto legge approvato dal governo e a cui fa appello l’Ilva, non ha infatti alcun effetto retroattivo: “Il divieto di retroattività della legge- scrive il gip – è fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento”.

La Todisco, infatti, cita un passaggio del decreto legge, in base al quale “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la società Ilva S.p.A. è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per un periodo di 36 mesi (durata dell’Aia, ndr)”. Il gip, citando l’articolo 3 del decreto legislativo, rileva che “la norma impone di escludere radicalmente che si sia voluto attribuire efficacia retroattiva alla disposizione”. Per questo motivo il giudice non ha concesso il dissequestro. Tutto molto semplice e lineare.

Non per l’Ilva però, che nella sua nota piange lacrime di coccodrillo sul latte oramai versato: “Tutta la produzione giacente in stabilimento, generata prima e dopo la data del 26 luglio 2012 e fino al 2 dicembre 2012, non potrà essere inviata agli altri stabilimenti del gruppo per le successive lavorazioni o consegnata ai clienti finali. Mancando la disponibilità di prodotti finiti e semilavorati verrà del tutto interrotta la lavorazione verticalizzata a Taranto e negli altri stabilimenti ILVA e sarà necessario ricostituire da zero un nuovo parco prodotti lavorati e semilavorati”. Ed infatti è proprio quello che deve accadere, visto che l’attività produttiva è legittimata soltanto a partire dal 4 dicembre, giorno seguente la firma del presidente della Repubblica sul decreto ‘salva-Ilva’ che riconsegna l’area a caldo nelle mani dell’azienda. Di qui, nella logica del profitto aziendale, il passo successivo è far calare la mannaia sui lavoratori: “Da ora e a cascata per le prossime settimane circa 1.400 dipendenti, appartenenti prevalentemente alle aree della laminazione a freddo, tubifici e servizi correlati, rimarranno senza lavoro.

Il numero di questi lavoratori si andrà a sommare ai già 1.200 dipendenti attualmente in cassa integrazione per le cause già note quali la situazione di mercato e le conseguenze del tornado che ha investito lo stabilimento di Taranto lo scorso 28 novembre. Si fermeranno poi a catena gli impianti ILVA di Novi Ligure, Genova Racconigi e Salerno, dell’Hellenic Steel di Salonicco, della Tunisacier di Tunisi e di diversi stabilimenti presenti in Francia nonché tutti i centri di servizio Ilva, quali Torino Milano e Padova, nonché gli impianti marittimi di Marghera e Genova”. Il gioco, per non dire la minaccia, è molto sottile: l’Ilva non parla di “licenziamenti”, ma usa l’espressione “senza lavoro”. L’intento, infatti, è proprio quello di far ricadere le responsabilità delle scelte aziendali interamente sulle spalle della magistratura. Una scelta precisa che diventa l’ennesimo messaggio-ricatto al governo: fate in modo da lasciarci le mani libere, altrimenti vi creiamo problemi di ordine economico e sociale su tutto il territorio nazionale.

“Tutto ciò comporterà, in attesa di ricostituire la scorta minima per la ripresa dei processi produttivi, una ricaduta occupazionale che coinvolgerà un totale di circa 2500 addetti”. Le ripercussioni maggiori si avranno, ancora una volta, a Genova e Novi Ligure, “dove nell’arco di pochi giorni da oggi, saranno coinvolte circa 1.500 persone (1.000 su Genova e 500 su Novi Ligure)”. Un momento, però: perché in questo caso l’Ilva non dice che dopo un accordo firmato a settembre con i sindacati, i contratti di solidarietà a Cornigliano sono saliti 1.145. Così come non dice che sempre a settembre altri 105 lavoratori degli appalti di sei aziende genovesi si sono ritrovati improvvisamente “senza lavoro”, a causa dell’improvvisa sospensione dei lavori di costruzione (in fase molto avanzata) della nuova “zincatura 4” dello stabilimento genovese. Il gioco, dunque, è sempre lo stesso.

E si basa sempre e soltanto sulla logica del profitto. La zincatura 4 è infatti l’ultimo tassello dell’Accordo di programma del dopo 2005, in fase di collaudo e pronta ad essere messa in attività: in realtà, l’Ilva sapeva già da tempo che l’impianto avrebbe marciato comunque a ritmo ridotto a causa della crisi. Ma vista l’aria che tira a Taranto, tanto vale fermare tutto in attesa degli eventi.La lunga nota dell’azienda, si conclude evidenziando come “anche le conseguenze di carattere commerciale, riguardanti il settore tubi e altri settori strategici, saranno gravissime in quanto clienti di rilevanza mondiale subiranno pesanti ritardi nella loro produzione dovuta alla mancanza di approvvigionamenti”.

Sarà. Ma intanto, la soluzione c’è già. Lo Stato confischi il materiale prodotto e lo venda alle aziende che lo attendono: i proventi, un miliardo di euro, serva a pagare lo stipendio delle migliaia di lavoratori che l’azienda vuole lasciare senza lavoro. Tutto il resto, venga dato ai tarantini come inizio per il risarcimento danni che il gruppo Riva deve a questa città. Che è molto più esoso del miliardo che l’azienda non vuole assolutamente perdere. Ma che inesorabilmente perderà. Per una volta, lo possiamo dire: “é la legge, bellezza”.

Questo, sino alle 22.20 circa. Perché poi, arriva una notizia che ci fa comprendere come il governo abbia deciso di stare dalla parte del gruppo Riva e contro i tarantini. “Il Consiglio dei ministri ha deciso che il Governo presenterà un emendamento interpretativo al decreto salva-Taranto”. L’annuncio, guarda caso, viene dato in una nota del ministero dell’Ambiente. L’azienda potrà commercializzare quanto prodotto prima del decreto. “Con l’emendamento – si legge nella nota – si chiarisce che la facoltà di commercializzazione dei manufatti da parte dell’Ilva, riguarda anche quelli prodotti prima dell’entrata in vigore del decreto salva-Taranto e attualmente sottosequestro”. Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, queta mattina presenterà alla Camera l’emendamento governativo. Una vergogna assoluta. Verso la quale non ci sono più parole.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 12-12-2012)

 

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