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Ilva, ecco perché il Pm10 di Taranto è più pericoloso

TARANTO – «A Taranto il livello del PM10 è inferiore a quello della Pianura Padana». Partiamo da questa frase ad effetto, presente in una lunga nota diffusa dall’Ilva nel giorno in cui è stata depositata l’istanza per il dissequestro dell’area a caldo. L’azienda ribadisce un concetto sposato da tempo: “Le perizie chimiche ed epidemiologiche su cui si basano il sequestro da parte dell’Autorità Giudiziaria e i provvedimenti di custodia cautelare non sono assolutamente probanti”. Per sostenere questa posizione, l’azienda ha depositato anche dei commenti alle due perizie da parte di alcuni esperti.

“Le stime di particolato medio (PM10) a Taranto riportate nella perizia del dottor Forestiere, del professor Biggeri e della professoressa Triassi per incarico del GIP del Tribunale di Taranto – fanno notare dall’azienda – variano  da 22,9 a 34,9 microgrammi/m3 nel periodo 2004-2010 e questi livelli sono peraltro considerevolmente inferiori ai livelli medi annui di 45-55 microgrammi/m3 registrati oggi in altre aree urbane del Nord Italia, come Firenze, Roma, Milano o altre numerose aree urbane e non”.

Nell’istante in cui leggiamo queste affermazioni, ci tornano in mente (e risuonano nelle orecchie) le parole degli esperti che accompagnarono il ministro della Salute Renato Balduzzi a Taranto lo scorso 22 ottobre. “La differenza tra le polveri sottili di Taranto e quelle di altre città è proprio nella loro composizione – venne detto – qui c’è un mix di inquinanti che altrove non c’è”.

A proposito del rischio sanitario collegato alla qualità dell’aria, ecco cosa si leggeva nella relazione fornita alla stampa in quella giornata: “In base ai dati dell’ultimo rapporto sulla qualità delle aree urbane italiane pubblicato nel 2012, non si evidenziano a Taranto situazioni di degrado diverse dalla maggior parte dei centri urbani italiani per quanto riguarda la concentrazione media annuale di materiale particellare (PM10)”.

Poche righe dopo, però, si ammette quanto segue: “Gli studi epidemiologici, tuttavia, indicano un nesso causale con le esposizioni ambientali per alcuni eccessi di mortalità e morbosità evidenziati sia nell’area di Taranto e Statte, sia nei quartieri più vicini all’area industriale, che identificano nel materiale particellare il principale fattore di rischio”.

Viene spiegato, infatti, che “la componente che caratterizza il PM10 presente nel quartiere Tamburi è il benzoapirene, un Idrocarburo Policiclico Aromatico (Ipa), classificato come cancerogeno certo dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E’, infatti, la concentrazione in aria del benzoapirene a differenziare il quartiere Tamburi dagli altri quartieri di Taranto e dalle aree urbane italiane“.

Gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della Salute sostengono, carte alla mano, che “lo stabilimento siderurgico, in particolare gli impianti Altoforno, Cokeria ed Agglomerazione, è il maggiore emettitore nell’area per oltre il 99% del totale ed è quindi il potenziale responsabile degli effetti sanitari correlabili al benzoapirene”. Ipotesi confermata dalle campagne di rilevazione di Arpa Puglia nel quartiere Tamburi che evidenziano “concentrazioni significativamente più elevate di benzoapirene quando il vento spinge le polveri presenti nell’area dello stabilimento verso il quartiere residenziale“. “Ciò spiega – si legge ancora nella relazione – come mai a Taranto si registri la concentrazione media annuale più alta di benzoapirene tra le aree urbane italiane (1,8 ng/m3 nel 2010) e che, ancora oggi, tale concentrazione superi largamente il valore obiettivo fissato per il 1° gennaio 2013 dal D.Lgs. 155/2010 (1 ng/m3)”. Parole che delineano una realtà molto diversa da quella indicata dall’Ilva.

Alessandra Congedo

 

 

 

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