Diossina, bonifiche, Ici Ilva – Interrogazione del sen. Lannutti (Idv)

E’ del senatore Elio Lannutti (Idv), nato in provincia di Chieti, residente in Umbria ed eletto in Veneto, l’atto di sindacato ispettivo  n. 4-06575, pubblicato lo scorso 12 gennaio, con il quale si chiede ai Ministri dell’ambiente, della Salute e dell’Economia, di fare luce su diversi aspetti della questione ambientale tarantina. Ancora una volta, quindi, a occuparsi dell’inquinamento prodotto dalla grande industria in riva allo Jonio non è un parlamentare tarantino. La cosa, però, non ci stupisce più. Riportiamo di seguito l’interrogazione presentata da Lannutti (A. Cong).

“Ai Ministri dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, della salute e dell’economia e delle finanze. –

Premesso che:

i carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe) hanno sollecitato il sequestro degli impianti dell’Ilva di Taranto alla luce dell’inquinamento riconducibile agli impianti della grande fabbrica dell’acciaio;

si legge su “la Repubblica-Bari” del 25 giugno 2011: «La richiesta al gip conclude un corposo rapporto spedito all’attenzione della procura di Taranto nell’ambito dell’inchiesta sulle emissioni nocive dai camini dello stabilimento siderurgico. I carabinieri del nucleo operativo ecologico per quaranta giorni hanno monitorato l’attività dei reparti del colosso dell’acciaio con tanto di riscontri filmati e fotografici. Il rapporto si inquadra nell’indagine avviata per individuare le fonti dell’inquinamento da diossine, pcb e benzoapirene registrato a Taranto e provincia. L’inchiesta sta vivendo un decisivo incidente probatorio con al centro una maxi perizia che dovrà rispondere ai quesiti posti dai giudici, ma soprattutto ai tanti dubbi che tengono sulla graticola la terza città del Mezzogiorno, costretta a vivere gomito a gomito con l’industria pesante. Nell’inchiesta figurano indagati Emilio Riva, patron delle acciaierie, suo figlio Nicola, e i dirigenti Luigi Capogrosso e Ivan Di Maggio. A loro carico sono ipotizzati i reati di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato e getto di cose pericolose. Durante l’udienza» del 10 gennaio 2012 «il gip Patrizia Todisco ha affidato l’incarico a tre esperti di epidemiologia di fama nazionale (sono la professoressa Maria Triassi, ordinario a Napoli, il dottor Francesco Forastiere, del dipartimento della Asl di Roma, entrambi epidemiologi, e il professor Annibale Biggeri, docente di Statistica Medica a Firenze) per una indagine che dovrà stabilire entro sei mesi (la prima udienza è stata fissata per il 17 febbraio) gli eventuali effetti delle emissioni sulla popolazione residente e sugli operai. Entro quella data gli esperti dovranno presentare gli esiti dello studio. Circa tre anni fa, dopo il ritrovamento nel latte, nei formaggi e nella carne di tracce di diossina, migliaia di capi di bestiame, in particolare pecore, furono abbattuti in sette allevamenti zootecnici. Subito dopo la Regione Puglia vietò il pascolo in un raggio di 20 chilometri dallo stabilimento». Poi le analisi Asl rivelano presenze di policlorobifenili nelle acque del mar Piccolo. Scatta il divieto di allevare le cozze: 24 operatori su 103 rischiano il lavoro;

il citato articolo prosegue: «Gli allevatori della zona si sono costituiti in giudizio. Sono già in corso da alcuni mesi anche le indagini di tre chimici e di un ingegnere chimico che stanno effettuando prelievi e campionamenti, ad esempio sugli alimenti. Ma nella loro perizia dovranno occuparsi anche dei tassi di inquinamento ambientale. In questa fase si sono costituiti in giudizio il Comune e la Provincia di Taranto mentre le associazioni, in particolare le Donne per Taranto, chiedono che lo facciano anche la Regione Puglia e il Ministero dell’Ambiente. Gli epidemiologi nominati, che il 1 luglio faranno le operazioni peritali preliminari a Roma, dovranno rispondere a tre quesiti che riguardano specificamente gli eventuali collegamenti tra l’inquinamento e le patologie croniche e i decessi nel capoluogo jonico»;

considerato che:

l’Ilva da 50 anni rappresenta la più grande realtà industriale esistente a Taranto, nonché il più grande impianto siderurgico d’Europa, con circa 13.000 dipendenti che arrivano a 20.000 se si considera anche l’indotto, ed è anche uno dei siti più inquinanti d’Italia;

l’Ilva è l’industria con il maggior numero di morti sul lavoro, i tassi di precarizzazione sono alti e c’è sovente ricorso alla cassa integrazione;

Taranto è la città più inquinata d’Europa: solo l’Ilva emette nell’aria oltre il 10 per cento di tutto l’ossido di carbonio prodotto in Europa;

a Taranto si muore più che in ogni altra città pugliese come confermano i risultati del registro tumori jonico-salentino. Se la media regionale pugliese dei decessi è pari a 100, gli ultimi dati disponibili hanno portato Taranto a quota 117 per tutte le cause di morte, a 129 per i tumori al polmone, a 474 per i tumori della pleura, a 124 per i tumori alla vescica. Patologie riconducibili a problemi di inquinamento. Un’incidenza che negli anni è aumentata portando la popolazione all’esasperazione vista l’impotenza di una città. Il quartiere Tamburi, nelle cui vicinanze opera lo stabilimento siderurgico, è rinominato “dei morti viventi”;

intorno a questa situazione vige un malcontento generale della cittadinanza di Taranto e dei comuni viciniori, dove arrivano gli effetti nefasti delle emissioni inquinanti con relative patologie tumorali;

da un po’ di anni è nata una coscienza civica che sta portando i tarantini a prendere coscienza del problema e, soprattutto, a cercare soluzioni che permettano una vita migliore;

la loro battaglia, però, è difficilissima, in quanto vige il ricatto occupazionale ed il timore che l’Ilva possa delocalizzare l’industria in altri continenti, con conseguente perdita di lavoro per migliaia di lavoratori;

in media le legislazioni di tutti i Paesi europei fissano in 0,1 o 0,2 nanogrammi per metro cubo la concentrazione di diossina che può essere immessa nell’aria. La legislazione italiana, invece, ne prevede 10.000 di concentrazione totale, ma altre Regioni, come il Friuli, che avevano notato un aumento di diossina nell’aria, hanno provveduto a riportare sotto la soglia europea le emissioni;

il 5 luglio 2011 è stata chiusa l’istruttoria per dotare l’Ilva del certificato Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, ma è sopraggiunto l’allarme dei Noe;

si apre un nuovo capitolo sulle emissioni diffuse, che sfuggono finora ai controlli. Il rapporto dei Noe riporta che sono state osservate consistenti emissioni riconducibili allo slooping, all’utilizzo improprio di sei torce al servizio delle acciaierie. Segue una tabella con decine di episodi con una nube rossastra eccezionale e imponente. I Noe parlano anche di intense emissioni non convogliate, capaci di propagarsi oltre i confini dell’Ilva, derivanti dal riversamento sul terreno di scorie per raffreddarle;

un articolo de “il Fatto Quotidiano” del 29 dicembre 2011 scrive che la quarta campagna di rilevazione delle emissioni in atmosfera di diossina dal camino E312 dello stabilimento Ilva, effettuate dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) in Puglia dal 12 al 14 dicembre 2011, ha stabilito che la diossina liberata in aria è inferiore a 0,1 nanogrammi per metro cubo;

il dato è eccezionale, ha commentato Biagio De Marzo, oggi portavoce del cartello ambientalista Altamarea, ma in passato dirigente nella siderurgia di Taranto, Terni e Sesto San Giovanni. Quello che però si chiede è come mai sia stata effettuata una quarta campagna di rilevazione a poco più di 20 giorni dall’ultima fatta a novembre;

la legge approvata a dicembre 2008 dal Consiglio regionale pugliese prevede infatti almeno tre campagne annuali di misurazione, ciascuna di tre giorni consecutivi. Nel 2010 le misurazioni furono esattamente tre: l’Arpa accertò, con la media aritmetica dei dati, che le emissioni furono pari a 2,3 nanogrammi per metro cubo. Le misurazioni del 2011 avevano invece accertato un risultato decisamente più basso rispetto allo scorso anno, ma tuttavia maggiore del limite di 0,4 nanogrammi al metro cubo stabilito dalla legge. Facendo infatti la media aritmetica dei dati ottenuti a febbraio, maggio e novembre si otterrebbe il valore di 0,5 nanogrammi per metro cubo;

spiega Di Marzo che se le misurazioni fossero rimaste tre come nel 2010 l’Ilva avrebbe nuovamente superato il limite di emissione della diossina, innescando così una procedura sanzionatoria. Non vengono contestati i dati forniti dell’Agenzia regionale, ma ci si aspetta che qualcuno con onestà spieghi come mai una nuova campagna a distanza di soli 26 giorni. E sulle modalità con cui vengono effettuate le rilevazioni, anche Patrizio Mazza, consigliere regionale di maggioranza ed ematologo dell’ospedale Moscati di Taranto, sembra perplesso. L’Arpa – afferma il medico – opera in orari di lavoro così come stabilito da crismi di ‘contratti di lavoro di categoria’, ma gli incrementi di produzione e le lavorazioni maggiormente inquinanti, proprio da visione oculare, appaiono molto evidenti nelle ore notturne. Seconda Mazza quindi i rilievi dovrebbero essere fatti senza preavviso proprio nelle ore di maggiore produzione, in quelle ore insomma in cui passeggiando sul ponte girevole, che unisce la città nuova a quella vecchia di Taranto, i fumi dell’Ilva offrono uno spettacolo decisamente poco rassicurante;

Alessandro Marescotti, docente tarantino che per primo nel 2005 portò all’attenzione dei media la questione diossina a Taranto, afferma che se il dato è davvero così rassicurante, è da chiedersi perché non si parta con il campionamento in continuo. In realtà ora bisognerebbe confrontare questo dato anche con il cosiddetto sporcamento del quartiere Tamburi, vedere cioè se nelle strade e sulle case a pochi metri dalla fabbrica vi è un altrettanto significativo abbassamento della diossina che si deposita. Questo quindi dovrebbe essere il momento anche per capire cosa si rilascia durante gli sbuffi transitori, quelle fumate emesse in concomitanza con qualche malfunzionamento degli impianti. Il risultato ottenuto, continua Marescotti, è stato possibile grazie all’impegno di tre soggetti: movimento ambientalista, Regione Puglia e Arpa, ma non è un punto di arrivo;

considerato inoltre che da un articolo pubblicato nel 2008 su un blog si apprende che l’Ilva di Taranto occupa una superficie tripla della città che la ospita e i due terzi del suo gigantesco porto. Con i suoi 250 chilometri di ferrovia interna e giganteschi altiforni, l’Ilva è il primo contribuente del Comune di Taranto. L’Ilva dichiara di pagare 3.600.000 euro annui di imposta comunale sugli immobili (Ici), ma in realtà l’Ici non la paga da ben 13 anni, dal lontano 1995, anno in cui fu privatizzata con la vendita per 1.400 miliardi di lire all’imprenditore bresciano Emilio Riva. Secondo le prime stime, su una base di 600.000 euro annui d’imposta, sommati ad altri 400.000 annui fra interessi e sanzioni, ha evaso 13 milioni di euro. L’ammanco, di cui nessuno sa dare spiegazioni se non per una clamorosa dimenticanza, è un’onda delle tante che hanno distrutto i conti municipali e che hanno ingigantito il disavanzo del Comune, che ammonta a 1.200.000 di euro, il più grosso dissesto della storia d’Italia. Ora, oltre al danno c’è pure la beffa poiché, siccome dopo 5 anni il pagamento delle imposte cade in prescrizione, è praticamente impossibile recuperare i soldi perduti,

si chiede di sapere:

in che misura, alla luce dei fatti esposti, il Governo abbia verificato l’eventuale danno causato dalle polveri con diossina;

se intenda avviare immediatamente un’indagine sui reali livelli di inquinamento addebitabili all’Ilva al fine di tutelare l’ambiente e garantire ai cittadini e alle generazioni future il miglior stato di salute possibile, nel rispetto del diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona;

se non ritenga opportuno intraprendere iniziative per l’avvio di un’indagine epidemiologica volta ad accertare eventuali danni sanitari collegati all’inquinamento nelle vicinanze delle fonti di rischio;

se non ritenga urgente provvedere ad organizzare un’ispezione per verificare lo stato degli elettrofiltri del camino E312 dell’Ilva anche al fine di verificare a quanto ammonti il totale annuo di polveri con diossine trattenute dagli stessi;

quali iniziative intenda assumere al fine di bonificare integralmente il sito inquinato di interesse nazionale di Taranto, visto che l’area in questione è sottoposta ad intollerabili livelli di inquinamento non solo per la diossina riversata nell’ambiente dal camino E312, ma anche per l’emissione di altri inquinanti come, ad esempio, il benzoapirene dalle cokerie, le polveri diffuse dai parchi minerali a cielo aperto e gli scarichi in mare;

quali iniziative abbia assunto per identificare la causa e i responsabili del danno ambientale e se siano state intraprese iniziative per far sì che lo stesso non continui a perpetuarsi nell’area interessata;

se non intenda procedere ad equiparare i limiti italiani relativi all’inquinamento da diossina ai valori in vigore negli altri Paesi dell’Unione europea;

come intenda attivarsi affinché non si abbassi la guardia nel richiedere con forza i controlli ambientali, soprattutto delle sostanze che non sono misurate dalle centraline di monitoraggio, ma non per questo meno pericolose poiché, allo stesso modo di quelle misurate, si disperdono nell’ambiente ed entrano nella catena alimentare;

se corrisponda al vero che l’Ilva, nonostante le sue dichiarazioni, non abbia pagato l’Ici per 13 anni e se questa irregolarità sia stata sanata e l’azienda non sia più morosa nei confronti del Comune;

quali iniziative, infine, intenda adottare al fine di tutelare la salute pubblica, l’ambiente ed i 20.000 posti di lavoro dell’Ilva”.

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