Ma la Cementir che fa? Gli operatori finanziari danno Taranto in chiusura

cementirTARANTO – Nella riunione svoltasi a Roma il 19 settembre scorso presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, la Cementir Italia scongiurò la chiusura dello stabilimento di Arquata Scrivia (AL) e il ridimensionamento (con prossima chiusura) di quello di Taranto (annunciati entrambi lo scorso giugno). In quell’occasione Cementir e sindacati (Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil) firmarono un accordo di Cigs aziendale per evitare il licenziamento di 214 lavoratori. Quel giorno i vertici della Cementir (era presente il direttore Mario de Gennaro) sostennero di aver ricevuto la rassicurazione da parte di Ilva Spa, sul proseguo dell’approvvigionamento della loppa d’altoforno, elemento essenziale per la produzione del cemento nel sito tarantino. Inoltre, in merito al futuro dell’azienda, fu anche detto che molto sarebbe dipeso dalle commesse, soprattutto estere, che dovrebbero arrivare nel breve-medio periodo e sulle quali i dirigenti della Cementir Italia si mostrarono alquanto fiduciosi. A secondo del numero e della mole delle commesse, si giocherà la partita della cassa integrazione: il numero massimo dei lavoratori impiegati oscillerà tra le 80 e le 42 unità. Per tutti gli altri, scatterà la cassa integrazione straordinaria.

Eppure, le nostre perplessità non si sono esaurite. Come si ricorderà, prima dell’incontro del 19 settembre, riportammo su queste colonne come Equita, banca d’investimento italiana con sede a Milano che opera nella finanza internazionale, rese nota la negoziazione da parte di Cementir di un piano di ristrutturazione in Italia “che porterà ad un totale di circa 150 esuberi” e che prevede “la trasformazione dei cementifici di Arquata (in un centro di macinazione) e di Taranto (il suo destino definitivo non è ancora stato stabilito)” la cui capacità installata, di circa 2,2 milioni di tonnellate, è pari al 50% della capacità del gruppo in Italia.

E la situazione non pare essere cambiata dopo l’accordo romano. Lo scorso 23 ottobre infatti, la Kepler Cheuvreux, società indipendente leader europeo di servizi finanziari specializzata in servizi di consulenza e di intermediazione per il settore della gestione degli investimenti, ha diffuso un report sul settore delle costruzioni. Nel quale, come nel caso di Equita ad inizio settembre, viene riportato che “i nomi preferiti nel settore del cemento sono di società appartenenti alla categoria delle mid-cap, nel dettagli Imerys e Cementir”. Parliamo ovviamente di titoli su cui puntare in Borsa. Nel suo report, Kepler Cheuvreux ha individuato tre fattori chiave che implementeranno la redditività di Cementir (hanno stimato per l’intero anno un utile a 24,7 milioni dai 16,5 milioni di fine 2012). In primis, si legge ancora una volta, “il taglio dei costi in Italia, tramite l’arresto delle produzione di clinker nel sito di Arquata Scrivia (0,8 milioni di tonnellate) e nell’impianto di Taranto (1,3 milioni di tonnellate) a partire da gennaio 2014. Cementir bloccherà così il 52% della produzione italiana del componente base del cemento”.

Al che viene da pensare che in realtà la Cementir, al di là dell’accordo con i sindacati del 19 settembre scorso, non abbia cambiato di una virgola i suoi progetti futuri per gli impianti presenti in Italia. Tra l’altro, a fronte del piano dei tagli previsto in base alla ristrutturazione aziendale (terminologia che ben conosciamo grazie alle vertenze Natuzzi e Vestas Nacelles), lascia da pensare quanto scritto nel verbale dell’intesa di settembre: “In relazione all’applicazione alla Cigs per crisi adottata sui siti produttivi interessati le parti, fermo restando il comune intento di contenere al massimo l’utilizzo, condividono che verranno definiti i meccanismi di rotazione attraverso un costante confronto con le RSU a livello di sito, estendendo al massimo la platea dei lavoratori interessati alla Cigs. L’azienda si impegna a contenere il numero massimo dei lavoratori da coinvolgere nella Cigs contemporaneamente non oltre le 130 unità complessive”.

Dunque, dov’è la verità? Se due società finanziare come Equita e Kepler Cheuvreux consigliano di puntare sui titoli della Cementir, proprio grazie al piano di ristrutturazione che prevede il fermo degli impianti di Arquata e Taranto, qualcosa di vero pure ci sarà. Del resto, la Cementir Holding viene attualmente definita “una delle più belle realtà del panorama azionario italiano che, da oltre un anno ha intrapreso una direzionalità rialzista ben definita e sorretta ottimamente sia dal mercato che da livelli tecnici di periodo”.

A tal proposito, proprio la scorsa settimana sono usciti gli ultimi dati in merito ai primi nove mesi dell’anno corrente sul gruppo Caltagirone. Che si sono chiusi con un risultato netto pari a 17,2 milioni a fronte di una perdita di 540mila euro registrata nei primi nove mesi del 2012. I ricavi – ha reso noto l’azienda – sono pari a 1,02 miliardi, in diminuzione del 3,3% rispetto al corrispondente periodo del precedente esercizio. I risultati positivi del gruppo Cementir – si legge in un comunicato – trainati dal buon andamento del mercato nei Paesi Scandinavi, in Turchia ed Estremo Oriente, hanno solo in parte compensato la contrazione del fatturato registrata nei settori dell’editoria e dei grandi lavori. Del resto, la stessa Kepler Cheuvreux aveva previsto che la redditività della Cementir “dovrebbe beneficiare secondo gli esperti anche della performance positiva in Scandinavia, che vale il 55% dell’ebitda consolidato di Cementir, in particolare grazie alla stabilità dell’utile in Danimarca e a un’ulteriore crescita dei volume in Norvegia e Svezia. Il tutto viene completato dalle attese circa un positivo andamento nei mercati emergenti”.

Il margine operativo lordo si attesta a 122,5 milioni (+39,5%) grazie essenzialmente al recupero di redditività realizzato nel settore della produzione di cemento a seguito della azioni poste in essere dal management ed agli effetti delle politiche di controllo e riduzione dei costi messe in atto nel settore editoriale. Il risultato operativo è pari a 46,2 milioni (da 13,8 milioni) al netto di ammortamenti, accantonamenti e svalutazioni per complessivi 76,3 milioni. La posizione finanziaria netta passa da -168,2 milioni al 31 dicembre 2012 a -153,1 milioni al 30 settembre 2013.

Per quanto riguarda le previsioni per l’intero anno invece, nel settore del cemento l’andamento positivo registrato dalle attività all’estero nei primi nove mesi dell’anno dovrebbe caratterizzare anche il quarto trimestre, nel quale si prevede la prosecuzione degli andamenti positivi nei Paesi Scandinavi, Turchia, Cina, Malesia ed Usa ed il persistere di incertezze e difficoltà in Egitto e Italia. E’ quindi lo stesso gruppo Caltagirone a confermare che “il settore dei grandi lavori continua ad essere caratterizzato dalla scarsità delle risorse pubbliche disponibili per gli investimenti ed al momento non si avvertono segnali di una significativa inversione di tendenza”. Ed essendo che “anche il settore editoriale continua ad essere caratterizzato da un andamento negativo per quanto riguarda la raccolta pubblicitaria”, il Gruppo Caltagirone Editore “continuerà una rigorosa politica di razionalizzazione, riorganizzazione e riduzione dei costi”.

Ciò detto, è bene ricordare che il progetto di ammodernamento dell’impianto di Taranto resta di fatto congelato, con la produzione che prosegue attraverso l’utilizzo di un impianto del 1964 (come annunciato dallo stesso Caltagirone nell’assemblea dei soci dello scorso aprile), con tutto ciò che questo comporta in termini di inquinamento ambientale e di rispetto della salute dei lavoratori e dei cittadini. Il progetto (che aveva ottenuto un finanziamento di 90 milioni di euro dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) ed un finanziamento pubblico a fondo perduto dalla Regione Puglia garantito dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale nell’ambito del programma operativo 2007-2013 pari a 19.031.512,30 euro) prevedeva il rifacimento dell’impianto di macinazione e la costruzione di un nuovo forno (al posto dei tre esistenti), la dismissione di parte dell’impiantistica del cementificio esistente ed in esercizio dagli anni ’60, l’integrazione delle nuove linee con i servizi ausiliari e alcuni impianti oggi in uso, l’integrale sostituzione della linea clinker (costituita da mulino del crudo, forno, recuperatore termico, precalcinatore, griglia di raffreddamento del clinker, e deposito del clinker) e la sostanziale riqualificazione della linea cemento. Ma è quasi scontato che quel progetto resti per sempre nel mondo dei sogni.

Inoltre, proprio a fronte di quanto sopra, genera ancora più preoccupazione la volontà del governo Letta di voler “resuscitare” la possibilità (bocciata nella precedente legislatura in seguito ad approfondimenti della Commissione Ambiente della Camera) di semplificare le procedure per la combustione di rifiuti (in particolare CSS, combustibile solido secondario) nei cementifici. Pratica del tutto contraria alle più recenti direttive del Parlamento e della Commissione Europea, che hanno chiesto agli Stati membri il completo abbandono del ricorso all’incenerimento nel prossimo decennio, favorendo il recupero spinto di materia. Proprio la scorsa settimana infatti, l’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente) ha diffuso un comunicato per criticare l’intenzione del Governo.

Bruciare rifiuti nei cementifici (pratica economicamente vantaggiosa soltanto per i gestori degli impianti e per i produttori di CSS) “non ridurrebbe in maniera utile” le elevatissime emissioni inquinanti: la modesta riduzione che si otterrebbe mediante sostituzione dei combustibili fossili con rifiuti, sarebbe “abbondantemente compensata da incrementi anche minimi della capacità produttiva, con incrementi importanti delle emissioni di microinquinanti persistenti nell’ambiente, bioaccumulabili e tossici per la salute umana, quali metalli pesanti e diossine”. Il cemento prodotto, inoltre, ingloberebbe le ceneri tossiche prodotte dalla combustione dei rifiuti, “incrementando il rischio professionale e sanitario legato al suo utilizzo”. Sarebbe molto più utile, in termini di sostenibilità, “se il Governo prendesse in considerazione per i cementifici il divieto di utilizzo di alcuni combustibili altamente inquinanti (ad es. il pet-coke) e l’imposizione di miglioramenti tecnologici e di limiti produttivi ed emissivi in grado di garantire la tutela dell’ambiente e della salute pubblica ai residenti nelle vicinanze di questi impianti, molto spesso inseriti in pieno contesto urbano con gravi conseguenze sanitarie”. Ma questa è un’altra storia. E noi restiamo ancora una volta in attesa degli eventi. O che qualcun altro decida per noi.

 Gianmario Leone (TarantoOggi, 17.11.2013)

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