Clini è tornato a Taranto per difendere l’Ilva

TARANTO – L’incontro di ieri all’Ilva con il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ha rappresentato una specie di chiusura del cerchio su quanto avvenuto negli ultimi mesi. Un incontro che ha chiarito, se mai ce ne fosse stato bisogno, le reali convinzioni del governo e dell’azienda. “TarantoOggi” ritorna così dopo oltre 3 anni di assenza nella sala conferenze dell’Ilva, dopo essere stato bandito come giornale negli anni d’oro della gestione dei Riva in cui remavano tutti dalla stessa parte, anche se oggi in tanti fanno finta di esserselo dimenticato. Ma il tempo per la resa dei conti è vicino. Per tutti.

La continuità produttiva

Innanzitutto, il ministro Clini ha confermato che la continuità produttiva dello stabilimento non deve essere messa in discussione: da nessuno. Ponendosi in questo modo in totale contrasto con il principio base che ha portato la Procura di Taranto al sequestro degli impianti dell’area a caldo e della non facoltà d’uso a fini produttivi degli stessi. Nell’ordinanza dello scorso luglio infatti, il gip Patrizia Todisco chiariva che gli impianti andavano fermati e risanati: soltanto in un secondo momento e previa verifica dei lavori svolti, l’attività produttiva del siderurgico sarebbe potuta ripartire. Principio che un ministro dell’Ambiente dovrebbe sposare in toto senza colpo ferire. Invece l’AIA concessa del ministero lo scorso 26 ottobre, prevede qualcosa di molto diverso: ovvero un calendario scaglionato nel tempo sui vari impianti, in modo tale da non interrompere mai la continuità produttiva dell’Ilva.

Di fatto, quindi, il ministro dell’Ambiente autorizza l’azienda a continuare ad inquinare, anche se in tono leggermente minore rispetto al passato vista la non contemporaneità di lavoro dei vari altiforni. L’Ilva potrà infatti produrre “massimo” 8 milioni di tonnellate d’acciaio all’anno: una conquista, non c’è che dire. Peccato che la media dello stabilimento tarantino negli ultimi 17 anni non abbia mai superato le 8,5 mln di tonnellate. Tutto questo non può essere cambiato e chi afferma il contrario “non ha capito dove siamo”, ha affermato il ministro Clini. Anche perché, ha sottolineato il ministro, se l’Ilva si ferma esce inevitabilmente dal mercato: ed un suo futuro ritorno nello stesso sarebbe molto più problematico.

E se l’Italia perde la produzione d’acciaio dello stabilimento di Taranto, per uno scontato effetto domino, ne risentirà tutta l’economia italiana. Il mercato, dunque, è più importante di qualsiasi altra cosa. E, soprattutto, non ha certo tempo da perdere. Clini, infatti, ribadisce come la situazione vada risolta il prima possibile: non si può di certo pensare di attendere il responso della Corte Costituzionale che non arriverà prima di 5-6 mesi. Anche perché, come sostenuto anche martedì dai sindacati nel corso dell’incontro all’Autorità Portuale, un “piano B” il governo non lo ha. Il sacrificio è dunque inevitabile: per almeno i prossimi tre anni infatti, i tarantini dovranno continuare a subire l’inquinamento dell’Ilva e ad ammalarsi. Sperando in un futuro più “eco-compatibile”. Sul quale però non vi è alcuna certezza.

I perché di una legge

Il decreto legge 207 e la conseguente legge 231, meglio conosciuta come “salva-Ilva”, si sono resi necessari perché l’azienda, insieme alle istituzioni locali e ai sindacati, hanno fatto presente all’esecutivo che senza la piena disponibilità degli impianti dell’area a caldo e la possibilità di movimentare e commercializzare il prodotto, l’Ilva non avrebbe potuto ottemperare alle prescrizioni previste nell’AIA. Anche ieri, infatti, il ministro Clini ha dimostrato di credere alla favola secondo cui il gruppo Riva sia in una situazione di mancanza oggettiva di liquidità. Questo perché, ha sottolineato il ministro, “non bisogna confondere l’introito derivante dalla produzione con il patrimonio del gruppo”.

Indubbiamente: perché i miliardi che il gruppo Riva ha fatturato in tutti questi anni, non derivano di certo dall’attività del siderurgico tarantino. Non è dato però sapere grazie a quale attività l’Ilva abbia fatturato miliardi di euro. Né è dato sapere che fine abbiano fatto e facciano tutt’ora, i 5 miliardi di euro di fatturato netto dell’azienda, visto che il miliardo sottratto dal sequestro dello scorso 26 novembre, rappresenta soltanto 1/6 del fatturato annuo dell’Ilva. Eppure, senza lo sblocco di quel miliardo, si fermerà tutto: perché i soldi nascosti nel tesoro di famiglia sono ben sicuri nelle varie holding offshore.

Inoltre, sottolinea il presidente Ferrante, le banche non “ci consentono l’accesso al credito se non presentiamo le fatture che certificano la vendita del prodotto”. O, forse, non consentono più l’accesso al credito come una volta perché l’Ilva ha quasi 3 miliardi di euro di debiti da saldare entro il 2013, di cui una parte esposta verso diverse banche italiane, seppur amiche. Che molto probabilmente conoscono già da tempo la “exit strategy” del gruppo Riva dall’impasse tarantina.

La colpa dei custodi

Ovviamente, non ci siamo potuti esimere dal fare la nostra solita domanda “ingenua”. Sulla quale il presidente Ilva Bruno Ferrante, nonostante i sorrisini complici di alcuni presenti, è clamorosamente caduto, smentendo tra l’altro quanto da lui sostenuto mesi addietro. “Perché avete prodotto nonostante il sequestro dell’area a caldo e la non facoltà d’uso degli impianti ai fini produttivi? Così facendo avete contravvenuto ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria, realizzando un’attività illecita che ha “prodotto” il materiale oggi sequestrato, perché appunto corpo del reato”.

La risposta del presidente Ferrante, è la stessa che i sindacati ci hanno fornito nell’incontro di martedì (ennesima dimostrazione di come siano ancora oggi del tutto appiattiti sulle posizioni dell’azienda). “Dal 26 luglio l’area a caldo è stata affidata ai custodi giudiziari: noi non potevano nemmeno avvicinarci”. Ma come, presidente: tra i quattro custodi giudiziari, vi era anche lei. Silenzio. Ma la reazione è immediata: “Io curavo soltanto la parte amministrativa”. Un momento, però: l’area a caldo era stata affidata ai custodi soltanto per avviare la fase di risanamento, non certo per continuare l’attività produttiva che doveva essere immediatamente fermata dall’azienda. In pratica, si vuol far credere che se la produzione non si è fermata, è stata colpa dei custodi giudiziari. Ma il buon Ferrante dimentica quanto lui stesso dichiarò lo scorso settembre.

“L’Ilva attualmente produce perché è inevitabile che produca. Se gli impianti, come dicono gli stessi magistrati, devono funzionare per essere risanati, è inevitabile che se funzionano producono, quindi l’acciaio viene prodotto regolarmente ed è impossibile che non sia così”. Già allora contestammo totalmente questa teoria fantasiosa. Gli impianti possono essere fermati, messi in sicurezza restando però accesi, ma senza che producano. Altri, invece, vanno per forza di cosa spenti. Ma è fuori dal mondo sostenere che un impianto acceso produce inevitabilmente. La frase su citata, dunque, smentisce la favola sui custodi.

Sempre lo scorso settembre, Ferrante dichiarò che “combattere il reato è una cosa, dare un’indicazione su scelte di natura tecnica di intervento sugli impianti è un’altra cosa. E un’altra cosa ancora è adottare provvedimenti che dicono all’azienda di chiudere, di non produrre. Questo significa alterare l’equilibrio sociale, economico, industriale di una zona del Paese”. Ecco perché l’Ilva, nonostante le indicazioni messe nere su bianco dai custodi giudiziari, ha continuato a produrre. E a farlo di gran carriera, come hanno testimoniato decine di volte moltissimi operai.

Così come il buon Ferrante finge di non ricordare il perché, lo scorso 25 ottobre, gli venne tolto l’incarico di custode giudiziario dal Tribunale di Taranto. Questa la motivazione: “ha dimostrato, pur presentando ricorsi legittimi, discutibile e scarsa disponibilità a collaborare con l’autorità giudiziaria, palesata soprattutto in maniera chiara con la volontà, o quantomeno l’interesse, a proseguire l’attività produttiva”.

E’ molto difficile che la Procura di Taranto possa sostenere una qualsiasi trattativa con il governo e l’azienda. L’azienda, in attesa del responso della Consulta, continuerà a produrre, pur mandando migliaia di lavoratori in cassa integrazione. In attesa del responso, non “conviene” portare avanti i lavori più importanti e ingenti da un punto di vista economico, previsti nell’AIA: perché il rischio concreto che la Corte Costituzionale dia ragione alla Procura sull’incostituzionalità della legge 231, c’è eccome. E a quel punto, come dichiarato da azienda, sindacato e governo, a fronte dell’assenza di un “piano B”, si verificherà quanto sosteniamo da anni. Si sta soltanto tentando di allungare l’agonia al mostro d’acciaio: ma il destino dell’Ilva è già segnato da tempo.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 24.01.2013)

 

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