Ilva, in attesa del gip Todisco

TARANTO – Da oggi, ogni giorno sarà utile per il pronunciamento del GIP Patrizia Todisco sull’istanza di dissequestro dell’area a caldo presentata dall’Ilva, già respinta dai Pm della Procura di Taranto che hanno inviato il loro parere, non vincolante, al giudice per le indagini preliminari, a cui spetta l’ultima parola visto che un eventuale ok al dissequestro, stravolgerebbe il senso stesso dell’ordinanza di sequestro preventivo dello scorso 25 luglio, che solo il GIP ha facoltà di cambiare. Come ampiamente previsto ed anticipato su queste colonne, i Pm hanno motivato il “no” al dissequestro ribadendo ancora una volta come l’azione dell’autorità giudiziaria non impedisca in nessun modo all’azienda di fermare e/o spegnere gli impianti dell’area a caldo ed intervenire sugli stessi per i lavori di risanamento e bonifica.

Ciò che è categoricamente vietato all’azienda è l’attività produttiva, che attraverso le emissioni diffuse e fuggitive causa l’inquinamento da cui derivano fenomeni di malattia e morte nella popolazione tarantina: dunque, la reiterazione del reato penale per cui quegli impianti, così come strutturati oggi e da decenni, non possono più produrre. In un primo momento, l’Ilva aveva dichiarato che la base imprescindibile per sostenere un piano industriale, fosse quella di ottenere una “minima capacità produttiva”, che avrebbe consentito, da un punto di vista prettamente economico, la fattibilità (copertura) dell’investimento: ipotesi bocciata da Pm e GIP, che definirono tale proposta come “sconcertante ed inaccettabile”.

Ma dopo aver ricevuto, negli scorsi giorni, l’ok al piano tecnico presentato al ministero dell’Ambiente per ottemperare alle prescrizioni presenti nel riesame dell’AIA rilasciata all’Ilva il 4 agosto 2011, l’azienda ha provato ad intraprendere una nuova strada: l’istanza di dissequestro in cui è presente la stravagante tesi secondo cui “un piano industriale non può essere elaborato senza avere la piena disponibilità degli impianti che sono sotto sequestro ormai da fine luglio. Un piano industriale necessita infatti della partecipazione del sistema bancario che non tratterebbe mai con chi non ha la piena disponibilità del bene in questione. Proprio per questo l’Ilva ha presentato istanza di dissequestro pochi giorni fa e per la quale si è in attesa della decisione del GIP”. Ora. La disponibilità degli impianti non c’è soltanto per quanto riguarda l’attività produttiva, non certo per intervenire sugli impianti, qualora ci fosse realmente la volontà di farlo. Inoltre, l’Ilva continua a fare orecchie da mercante: il gruppo Riva è infatti in possesso di tutte le risorse finanziare per far fronte anche ad investimenti per miliardi di euro. Ed è proprio da quelle risorse, realizzate soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di operai tarantini e non, oltre che di un intero territorio che ha pagato e paga tutt’ora un dazio inaccettabile da un punto di vista ambientale e sanitario, che il gruppo Riva deve attingere per trasformare radicalmente il siderurgico tarantino.

E’ davvero inconcepibile ed illogico pensare, anche solo per un istante, che la magistratura possa riaffidare gli impianti dell’area a caldo all’azienda e a quei dirigenti che persegue per un reato penale. Certo, l’Ilva può sempre sperare nell’aiuto “esterno” della Cassa Depositi o della Banca Europea per gli Investimenti, come abbiamo più volte sottolineato. Ma si tratta appunto di “prestiti”, non di regali: dunque di risorse economiche che il gruppo Riva si troverebbe costretto a restituire in un certo lasso di tempo e che andrebbero a sommarsi agli investimenti miliardari da attuare su impianti per i quali nulla è stato fatto negli anni. Anche l’intervento del colosso brasiliano nel mondo per la produzione di minerale ferroso nel pacchetto azionario di Riva Fire, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, avverrebbe soltanto in presenza di precise garanzie economiche.

Il discorso, dunque, è sempre lo stesso che portiamo avanti dallo scorso agosto. E che si basa su una semplice quanto inconfutabile verità: Riva non ha la minima intenzione di investire sul siderurgico tarantino. Al massimo, vorrebbe farlo nel corso dei prossimi 20 anni, libero dai lacci della magistratura e senza avere il fiato sul collo dei custodi giudiziari. E, comunque, come sottolineato dallo stesso presidente del Cda Ilva Bruno Ferrante la scorsa settimana, il piano tecnico presentato dall’Ilva è una “prova” per vedere se è effettivamente possibile “ambientalizzare” il siderurgico tarantino.

La realtà, intanto, ci parla sempre più di una lenta ma inesorabile smobilitazione. Nel fine settimana è infatti salito da 500 a 700 il numero dei lavoratori Ilva in ferie. Come previsto si è fermato il tubificio 2, dopo il rivestimento tubi e la produzione lamiere fermatisi lunedì scorso. Il ricorso alle ferie forzate è stato motivato dall’azienda con la mancanza di ordini di lavoro per l’area a freddo. Ma la vera novità è un’altra. Dopo non aver trovato con i sindacati metalmeccanici l’accordo per il ricorso alla cassa integrazione ordinaria per le due mila unità dei reparti dell’area a freddo, per il 29 novembre Bruno Ferrante ha convocato il coordinamento sindacale nazionale dell’azienda per fare il punto della situazione. In un primo momento infatti, i sindacati tarantini avrebbero dovuto incontrarsi nuovamente con l’azienda nella giornata di domani, mentre adesso siamo in presenza di una convocazione che riguarda le rappresentanze di tutto il gruppo siderurgico.

L’ennesimo segnale di come il gruppo Riva si stia preparando allo scontro finale sui destini dello stabilimento tarantino, alla cui sorte è legata non solo la produzione dell’acciaio italiano e il rifornimento all’industria metalmeccanica italiana (piccola, media e grande), ma anche e soprattutto i piani economici di uno dei maggiori gruppi industriali europei. Scontro a cui istituzioni locali, sindacati e classe dirigente tarantina, arrivano completamente impreparati. Con un’intera città che resta a guardare, perplessa, attonita e impaurita, sul destino che l’attende. Perché basare una lotta soltanto sul diritto ad essere risarciti e sulle necessarie bonifiche, scopiazzando altre realtà europee aliene (e comunque molto più piccole) rispetto ad un paese come l’Italia, senza progettare, ideare e pretendere la realizzazione di alternative economiche valide e serie, è una battaglia persa in partenza.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 26 novembre 2012)

 

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