Ilva, l’Afo 5 nel mirino

TARANTO – Giorno dopo giorno si stringe sempre di più  il cerchio attorno all’altoforno 5, il cui destino è direttamente proporzionale alla futura chiusura delle attività del siderurgico tarantino, che tiene in piedi la produzione italiana dell’acciaio che, chi più chi meno, un po’ tutti vogliono salvare. Ma alla resa dei conti, ciò che conta davvero, è il lavoro portato avanti dalla Procura e dai custodi giudiziari, che dopo aver fatto il punto della situazione, si sono dati un obiettivo ben preciso: spegnere l’altoforno più grande d’Europa nel giro di uno, massimo due mesi. Certamente non a luglio del 2014 come previsto dalle prescrizioni del riesame dell’AIA. Né a luglio del 2015, come invece previsto dai piani industriali del Gruppo Riva.

Il momento, però, è molto delicato e va gestito con la massima cautela: perché la Procura non può e non deve sbagliare nemmeno la più semplice delle operazioni, per non compromettere l’egregio lavoro sin qui portato avanti all’interno di un’inchiesta destinata a segnare la storia di questa città, comunque vadano le cose. Nei prossimi giorni, infatti, la Procura sceglierà che strada intraprendere: se lasciare che a spegnere l’AFO 5 sia direttamente l’Ilva attraverso i tecnici della Paul Wurth (incaricati dall’azienda di effettuare uno studio preliminare sull’impianto e già all’opera per spegnere entro i primi di dicembre l’AFO 1) oppure, come detto giorni addietro, affidarsi ai tecnici della ditta esterna che dovrebbe gestire la delicata fase dello spegnimento e della messa in sicurezza degli impianti: la “Danieli & C. Officine Meccaniche SpA”, multinazionale italiana con sede a Buttrio (Udine), leader mondiale nella produzione di impianti siderurgici. In questo caso però, Procura e custodi dovrebbero stanziare le risorse economiche per le operazioni di spegnimento “in danno”. Ciò vuol dire che sarà lo Stato a farsi carico del costo delle operazioni dell’autorità giudiziaria, per poi rivalersi sui Riva ottenendone il “rimborso spese”.

Detta così, può sembrare un qualcosa di molto semplice. Ma così non è, per diversi motivi che il Gruppo Riva conosce molto bene e che sono alla base della fase di limbo in cui sembra essere caduta la vicenda Ilva. Innanzitutto, c’è un problema prettamente economico: spegnere un altoforno, secondo gli esperti del campo, può venire a costare anche oltre due milioni di euro. Secondo: proprio alla certezza del pagamento anticipato, è legato l’ok dell’azienda che dovrà effettuare le operazioni; del resto, in tempi di crisi come questi, un buco economico di milioni di euro non se lo può permettere nessuno. Terzo: se la Procura agisse “in danno”, vista la delicatezza dell’operazione e il suo peso economico, l’autorità giudiziaria dovrebbe ottenere un’autorizzazione preventiva. Dallo Stato, ovviamente. Che però, nella vicenda dell’Ilva, è in una posizione leggermente “delicata”. Perché a concedere l’autorizzazione a procedere, sarebbe ovviamente il ministero di Grazia e Giustizia; che però, di fatto, avallerebbe un’operazione in aperto conflitto con il decreto AIA emanato pochi giorni fa dal ministero dell’Ambiente. Non solo. Perché mentre la Procura utilizzerebbe quei soldi per pagare i lavori per lo spegnimento degli impianti, l’AIA prevede il loro risanamento senza che venga fermato il processo produttivo. Non è un caso, del resto, se il procuratore capo Franco Sebastio abbia dichiarato al Sole24Ore che “non dobbiamo nemmeno sottovalutare la Corte dei Conti”. Che entrerebbe sicuramente in campo qualora si creasse un contrasto tra i due ministeri.

Dunque, l’obiettivo dichiarato è sempre lo stesso: procedere sulla strada dello spegnimento degli impianti posti sotto sequestro, per far cessare le emissioni diffuse e fuggitive che creano danni immani all’ambiente, oltre che fenomeni di malattia e morte nella popolazione tarantina. Senza commettere alcun passo falso. Anche perché, dall’altro lato c’è un’azienda che non ha la minima intenzione di collaborare. E che attende con distacco il corso degli eventi, ben sapendo che il tempo, e non solo quello, gioca a suo favore. Perché mentre la Procura tenta di ristabilire la legge in un territorio dove per decenni è stato violato come se niente fosse il diritto alla salute di un’intera popolazione (con il silenzio assenso di una lista infinita di complici), l’azienda non vuole perdere l’unica cosa che la tiene in vita: la facoltà d’uso dei suoi impianti per continuare a produrre. Facoltà che non ha più da mesi, anche se in forma più virtuale che reale. Prendendo ad esempio il caso dell’AFO 5, chi s’intende un minimo di siderurgia, sa perfettamente che c’è un abisso tra lo spegnimento e la fermata di un altoforno così grande.

Di regola, spegnere (ciò che vuole fare la Procura) ha come obiettivo quello di ricostruire interamente o parzialmente l’impianto. Invece fermarlo (cosa che non vuole la Procura, ma nemmeno l’Ilva e sindacati) vuol dire che l’altoforno può essere mantenuto acceso a bassa temperatura, oppure caricato in bianco, cioè riducendo progressivamente la presenza di minerali di ferro e alimentandolo con il carbone coke. L’Ilva, inoltre, gioca come detto anche sulla tempistica. Ci vogliono infatti almeno tre settimane per procedere compiutamente allo spegnimento dell’altoforno. Ma l’operazione richiede anche un altro passaggio fondamentale sulle cokerie: le batterie di forni, tutti uguali e separati da pareti di mattoni refrattari, che cuociono il carbone da utilizzare per la produzione, hanno bisogno di un paio di mesi per essere fermate, altrimenti il rischio esplosioni è più che concreto. Certamente però, la fase più delicata riguarda lo svuotamento dell’altoforno. L’impianto in questione è una specie di cono: in cima c’è la bocca, all’interno della quale vengono calati il carbone coke e i minerali di ferro trattati, insieme al fondente. Più in basso, l’altoforno si divide in tre parti: il tino, il ventre (dove raggiunge il diametro maggiore) e la sacca (dove avvengono la combustione e la fusione).

Prima del basamento c’è il crogiuolo, dove avviene il processo di separazione tra ghisa liquida (da cui poi si produce l’acciaio) e le loppe, cioè le scorie (quelle che confluiscono attraverso i nastri direttamente all’interno della Cementir, che si “nutre” della loppa dell’Ilva per produrre il cemento). All’interno l’AFO 5 è rivestito con materiale refrattario (ma anche di amianto). Se le operazioni di spegnimento non vengono eseguite correttamente, si corre il rischio di incrinatura nella struttura, se non il crollo del materiale refrattario, con un conseguente aggravio di costi necessari al ripristino di tutta la struttura. Se tutto dovesse filare liscio, ci vorrebbero comunque diversi mesi per la riaccensione e la rimessa a regime dell’intera area a caldo. Ecco perché la Procura e i custodi procedono con grande attenzione. Anche perché sia il GIP nella sua ordinanza, che il tribunale del Riesame nel suo provvedimento, hanno previsto l’assoluta necessità che sugli impianti si intervenga con grande cautela, proprio per non comprometterli da nessun punto di vista.

Sarebbe davvero il colmo se alla fine dovessimo ritrovarci nella condizione di dover “risarcire” in qualche modo il Gruppo Riva. Lo stesso Sebastio, sempre dalle colonne del Sole24Ore, ha infatti ammonito i tanti che non sapendo bene cosa fare nella loro vita, danno fiato alla bocca senza sapere ciò di cui stanno parlando: “Il caso Ilva è complesso e richiede decisioni ponderate. Non capisco, quindi, quanti dicono che sono passati 3 mesi dalla notifica del sequestro e la Procura non ha fatto niente. Non è così”. Dopo di che, una volta spenti gli impianti (cosa che lo Stato da un lato e i Riva dall’altro proveranno in tutti i modi ad impedire), toccherà al Gruppo Riva decidere se investire per risanarli. Noi, un piccolo consiglio vogliamo darlo: che si risparmino tutti quei miliardi di euro per impiegarli nel risarcimento che sarà chiamato a versare dopo decenni di inquinamento. Perché la fuga o il disimpegno da parte del Gruppo Riva, a voi la scelta del termine più adatto, era già stata programmata da tempo. Del resto, anche se tutti fanno finta di non saperlo, il siderurgico tarantino sta lentamente concludendo il suo ciclo vitale. E sarà praticamente impossibile riportarlo agli antichi “splendori” di un tempo. Ad maiora.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 5 novembre 2012)

Nella foto in alto l’Afo 5 in azione fotografato da un operaio

 

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