Ilva, la calma prima della tempesta

TARANTO – Dopo i giorni di fuoco delle scorse settimane, siamo improvvisamente piombati in uno stato di limbo assoluto. Dopo blocchi stradali, manifestazioni, sit-in, presidi, comizi e dichiarazioni roboanti che hanno coinvolto persino il presidente della Repubblica e il Papa, Taranto e la fabbrica si ritrovano a vivere uno stato di apparente tranquillità. Che cesserà non appena si conosceranno le motivazioni del Riesame, che spifferi provenienti dal tribunale lasciano immaginare saranno depositate nell’arco di 15-20 giorni. Prima di allora dunque, non accadrà nulla. D’altronde, è proprio in quelle motivazioni che Ilva e Procura troveranno ispirazione per i certi e rispettivi ricorsi in Cassazione. Che senz’altro riguarderanno le misure cautelari degli indagati: i legali dell’azienda presenteranno domanda per la cessazione dei domiciliari per Emilio e Nicola Riva, oltre che per l’ex direttore dello stabilimento Capogrosso; la Procura, invece, chiederà il ripristino delle misure cautelari anche per gli altri cinque indagati, tutti dirigenti a capo degli impianti delle aree colpite dal sequestro preventivo ordinato dal GIP Todisco e confermato dal Riesame.

Ma come sostenuto già ieri su queste pagine, il nodo dell’intera faccenda riguarda ben altro. E cioè la facoltà d’uso degli impianti da parte dell’azienda per proseguire nella produzione, che sino ad oggi, è bene precisarlo, non ha subito vistosi rallentamenti. E’ infatti da escludere, assicurano fonti del tribunale, che nelle motivazioni del collegio azienda, istituzioni e sindacati trovino ciò che rappresenterebbe una vera e propria manna dal cielo per il loro futuro: l’ok per continuare a produrre acciaio. Già nelle due scarne pagine del provvedimento di martedì d’altronde, è scritto che l’uso degli stessi servirà per la “realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti”. Certo, non è specificato l’esclusività dell’utilizzo, ma l’assenza non giustifica l’esistenza del contrario. Cosa che invece hanno inteso in un primo momento l’azienda e i sindacati. Ma la realtà è ben altra. Perché l’aut aut della Procura al gruppo Riva è sin troppo chiaro: o accettate di investire per apportare tutte le migliorie tecniche possibili agli impianti consigliate dai periti chimici e imposte dalle direttive europee, oppure chiudete.

La scelta finale, dunque, sarà di Emilio Riva. Anche perché la Cassazione, qualora l’azienda decida di presentare ricorso sul sequestro degli impianti, potrà al massimo giudicare nullo per un qualche vizio di forma il provvedimento del Riesame e quindi annullarlo: ma certamente non ha il compito, per legge, di entrare nel merito della vicenda ed esprimersi, ad esempio, sulla facoltà d’uso o meno degli impianti per continuare la produzione. Ecco perché è proprio qui il nodo di tutta la vicenda: il gruppo Riva sarà disposto a sospendere la produzione, impiegando i prossimi mesi (anni?) per la messa a norma degli impianti che richiederà investimenti di gran lunga superiori ai primi 90 milioni già annunciati dal neo presidente dell’Ilva, Ferrante? Perché qui non stiamo parlando di migliorie o di qualche operazione di maquillage.

Qui stiamo parlando di cambiare la natura stessa del siderurgico. Dando il via a lavori tecnicamente lunghissimi, dispendiosi ed anche di non semplice realizzazione. Due esempi su tutti. Il primo riguarda i famosi parchi minerari: 80 ettari a ridosso del quartiere Tamburi, che andrebbero o del tutto coperti, o spostati in altra zone del siderurgico, che si estende per 15.000.000 m2. Perché al di là della baggianata del completamento delle colline ecologiche e della sceneggiata della posa della prima pietra per i lavori del barrieramento, per risolvere davvero lo spolverio proveniente dai parchi, non ci sono altre soluzioni se non quelle su citate. Lavoro che richiederebbe mesi di tempo. Tanto per restare nel campo degli esempi, l’Enel di Brindisi, per coprire i soli due carbonili dello stabilimento di Cerano, ha investito oltre 200 milioni. Secondo, le batterie di forni a coke, meglio conosciute come cokerie: l’attuale assetto impiantistico è di 10 batterie. Ogni coppia di batterie di forni a coke costituisce un gruppo termico, avendo quindi batterie 3-4, 5-6, 7-8, 9-10 e 11-12. Su alcune di esse, negli anni, sono stati apportati dei semplici lavori di manutenzione.

Su altre, i periti chimici hanno evidenziato un adeguamento alle BAT (migliori tecnologie disponibili) molto lacunoso e poco efficace. Anche qui parliamo di ingenti somme da investire: le batterie hanno una vita media di 40 anni. Dopo di che o si spengono e si buttano via, o si sostituiscono. A suon di milioni. Sempre restando nel campo di questi due esempi, è bene ricordare che il famoso PM 10 non dipende soltanto dal parco minerali, ma anche dall’area a caldo. La differenza delle polveri delle due aree, è visibile ad occhio nudo: quella rosa/rossastra che ha reso negli anni il cimitero di San Brunone e la zona industriale una paesaggio da pianeta rosso come Marte, proviene dai parchi. La polvere nera che gli abitanti dei Tamburi si ritrovano giornalmente sui loro balconi e sulle loro macchine proviene dall’area a caldo.

Non è un caso, del resto, se nella prima udienza del Riesame la pubblica accusa, attraverso l’intervento del Pm Buccoliero, abbia ribadito come l’inquinamento sia un problema attualissimo e non solo il retaggio di decenni di attività dello stabilimento. Sfatando anche uno dei tanti luoghi comune di questa maxi inchiesta: “Per l’80% le emissioni inquinanti sono da ricondurre all’attività a terra dei reparti e non alle emissioni delle ciminiere”. E a dimostrazione di come il problema sia ancora lo stesso, anche in questi giorni, citiamo le rivelazioni delle due centraline di via Machiavelli e via Archimede del rione Tamburi, che nei giorni scorsi (30-31 luglio e 1 agosto) hanno nuovamente registrato valori di PM 10 sopra il limite di legge (50 µg/m3). I giorni di superamento del limite nel corso dell’anno finora sono 28 per via Machiavelli e 20 per via Archimede: il numero di superamenti annuali consentiti dalla legge è di 35. Limite sempre superato negli ultimi tre anni (2009/10/11). Così come quello del valore obiettivo di concentrazione del benzo(a)pirene.

Ora. E’ chiaro che venendo meno la continuità produttiva, per il gruppo Riva non avrebbe alcun senso investire per ammodernare gli impianti, senza poter ottenere in cambio profitto e quindi rispondere alle commesse che arrivano da tutta Europa ogni anno. Non solo. Perché tutti, compreso l’ingegnere dell’acciaio italiano, da tempo sanno come nel giro di 20 anni, Brasile, Cina e India, saranno irraggiungibili sul mercato anche per lo stesso gruppo Riva. Dunque, investire sull’ambientalizzazzione per un’industria che ha già il destino segnato, non avrebbe alcuna logica di mercato. E negli ambienti dei sindacati metalmeccanici, questo lo sanno fin troppo bene, tanto che in questi giorni di calma apparente è iniziato a circolare il “saggio” pensiero che “costringere l’Ilva a tenere gli impianti al minimo e senza produzione, significherebbe andare incontro ad una prospettiva non sostenibile”.

Lo spettro, ovviamente, sarebbe quello della cassa integrazione immediata per migliaia di lavoratori. E in Procura, anche gli stessi magistrati, dubitano fortemente sulle reali intenzioni dell’azienda di avviare i lavori urgenti e non più rinviabili sui vari impianti. Non a caso mercoledì, negli uffici della Procura, si è tenuta una riunione tra i pm del pool che si occupa di reati ambientali e i vertici locali delle forze dell’ordine, per stilare un crono programma che chiarisca i tempi degli interventi già annunciati dall’Ilva. La politica, intanto, continua la sua inutile e disperata corsa contro il tempo per provare a recuperare il terreno perduto in decenni di omissioni colpose e consapevoli. E soprattutto per scongiurare la fuga del gruppo Riva. Da ieri è infatti in vigore il decreto legge che dà attuazione alle misure contenute nel protocollo d’intesa da 336 milioni di euro sottoscritto il 26 luglio, che il 4 settembre approderà alla commissione Attività produttive della Camera.

Gli importi per l’avvio delle bonifiche ammontano a 119 milioni, 58 dei quali finanziati dalla Regione con risorse FAS. Del residuo (61), spettante allo Stato, il decreto ha sbloccato altri 20 milioni (risorse disponibili nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente per l’esercizio finanziario 2012). Sono quindi 78 i milioni disponibili: di questi, ben 41 serviranno per i dragaggi in Mar Grande, i restanti, per bonificare il territorio di Taranto. A cui, si dice, seguiranno altre risorse che saranno reperite e stanziate nel breve periodo. Ma siamo come sempre alle briciole. Perché al di là dei lavori già previsti e finanziati per il porto e che furbescamente sono stati inseriti nel protocollo d’intesa per Taranto, non si ha la più pallida idea di quali dovrebbero essere le tecniche per intervenire su aree tra l’altro diversissime tra loro, come ad esempio il rione Tamburi e il Mar Piccolo. Così come resta ancora un segreto come sia possibile bonificare terreni e specchi d’acqua dove ancora oggi insistono sorgenti inquinanti. Per non parlare di come facciano azienda, istituzioni e sindacati, ad assicurare che si potranno svolgere tutti i lavori richiesti dalla Procura sugli impianti, con gli stessi beatamente in funzione per continuare a produrre acciaio. Qualcosa ci dice che, a meno di clamorosi e imprevisti colpi di scena, o forse sarebbe meglio dire di mano, la fine dell’Ilva e di un intero sistema di potere è molto vicino alla fine. Sulle cui macerie sarà compito della società civile e di tutti coloro i quali amano questa città, costruire un futuro diverso. Che anche senza il profitto del mostro d’acciaio, sarà sicuramente migliore di ciò che abbiamo vissuto sino ad oggi. “Ad maiora”.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 10 agosto 2012)

 

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