Ilva, il vero rischio? La fuga

TARANTO – La battaglia legale in atto tra la Procura di Taranto e il gruppo Riva, è ancora lungi dal potersi definire conclusa. Si tratta solamente di attendere chi farà la prossima mossa. D’altronde il rebus da sciogliere è tutt’altro che secondario: chiarire se la fabbrica possa o meno continuare nella produzione di acciaio. Lo snodo per il futuro, infatti, è tutto lì. Il testo del provvedimento del tribunale del Riesame infatti, non è stato un esempio di chiarezza. Scrive il collegio giudicante: gli impianti si “utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo”. Letto il provvedimento, la Procura di Taranto si è detta soddisfatta perché il Riesame ha confermato il sequestro preventivo degli impianti, il cui funzionamento dovrà avvenire soltanto in funzione dei lavori di risanamento.

Dall’altra parte però, il neo presidente dell’Ilva Ferrante, ha sostenuto la tesi opposta. Partendo dall’assunto che nel testo del Riesame non si parla più di chiusura, “questo lascia pensare che l’attività produttiva prosegua sia pure finalizzata alla messa in sicurezza”. A sbrogliare la matassa, forse, saranno le motivazioni che il Riesame depositerà entro 15-20 giorni. Un fatto però è certo: se e quando si andranno a svolgere i lavori, gli impianti dovranno comunque essere regolarmente in funzione, altrimenti non si potrà verificare se quest’ultimi siano stati effettivamente realizzati o meno. Anche per questo la Procura ha salutato con favore la nomina di Ferrante a custode e amministratore delle aree e degli impianti sotto sequestro: la palla è nelle mani dell’Ilva. “Se l’azienda, per mera ipotesi, dicesse “non intendiamo collaborare”, allora dopodomani si chiude”, ha chiosato il procuratore capo Franco Sebastio.

Certo è che, quanto meno, sarebbe stato più opportuno lasciare tale ruolo al commercialista Tagarelli, che nell’ordinanza del GIP era stato indicato come colui il quale si sarebbe dovuto occupare di tutti gli aspetti amministrativi connessi alla gestione degli impianti sottoposti a sequestro e del personale addetto agli stessi. Se trattasi di trappola o aiutino, non è ancora chiaro. Ciò che è certo è che l’azienda non resterà a guardare le stelle: non è un caso dunque se ieri a Milano, la famiglia Riva ha incontrato gli avvocati e il neo presidente Ferrante: obiettivo dell’incontro capire quanto spazio di autonomia avrà nelle prossime settimane l’ex prefetto, quale strategia giudiziaria ha intenzione di imbastire la proprietà (sui beni reali e sui domiciliari, in sede di appello e di cassazione) e se ci sarà o meno una posizione ufficiale da parte dei figli e dei nipoti di Emilio Riva.

Ora. Non è chiaro se istituzioni, Ilva e sindacati stiano clamorosamente bluffando o davvero credono che la vicenda Ilva possa risolversi con la firma di un protocollo d’intesa che prevede finanziamenti risibili per la bonifica delle zone più colpite dall’inquinamento (68 mln in tutto per i Tamburi, Mar Piccolo e Statte), qualche finanziamento da parte della Banca europea per gli investimenti (ultima trovata geniale del trio Clini-Vendola-Fitto), o attraverso i 90 mln promessi da Ferrante. Probabilmente giocano sul fatto che in tanti, troppi, non conoscono la realtà del siderurgico e lo stato di alcuni impianti. Ad esempio, qualcuno dovrebbe informare il ministro dell’Ambiente Clini, che il quartiere Tamburi ha origini antichissime: l’acquedotto del Triglio, di epoca romana, portava l’acqua potabile alla città ed emetteva un gorgoglio simile ad un rullo di tamburi. Venne perciò attribuito il nome Tamburi al quartiere.

Ma in un intervento di ieri, il ministro ha candidamente affermato quanto segue: “il quartiere Tamburi é la rappresentazione concreta di un modo disordinato e scriteriato di localizzare gli insediamenti abitativi. Taranto e’ una città cresciuta attorno alle acciaierie, senza una vera programmazione da attuare in sede di piano regolatore, e questo ha aggravato la situazione di rischio ambientale”. Tra l’epoca romana e il 1960, anno della posa della prima pietra del siderurgico, c’è una leggerissima differenza. Ma la sensazione che siamo di fronte ad un bluff colossale, diventa tangibile quando istituzioni e sindacati sembrano dimenticare la storia della gestione Riva, affannandosi un giorno sì e l’altro pure, a imputare il disastro ambientale di oggi alla gestione pubblica dell’azienda di ieri.

Per sfatare l’ennesima boutade, basta citare un piccolo episodio storico. Bisogna infatti tornare molto indietro con la memoria, esattamente al 30 giugno del 1997, quando venne firmato il primo atto d’intesa tra l’azienda – all’epoca “ILVA LAMINATI PIANI s.p.a.” – e la Regione Puglia. In quell’atto, si concordava anzitutto “circa l’urgente necessità e l’indispensabilità di procedere in tempi congrui alla riduzione delle emissioni in atmosfera derivanti dal centro siderurgico di Taranto, tramite l’utilizzazione di tecnologie che consentano di contenere le stesse, nel medio periodo, a valori significativamente inferiori a quelli previsti dalla attuale normativa”. Si dava atto quindi, già nel lontano 1997, del fatto che la stessa Ilva avesse individuato, tra i “campi di intervento in via prioritaria”, quello della “riduzione delle emissioni diffuse della cokeria”; e si conveniva, pertanto, che l’azienda dovesse intervenire “con l’utilizzo delle migliori tecnologie per la riduzione delle emissioni in atmosfera”, mediante, tra gli altri, dei “sistemi per la limitazione delle emissioni derivanti dal processo di distillazione del carbon fossile in cokeria” (una copia di tale atto si può rinvenire nel carteggio tra il “P.m.p.” della ASL e Ilva, prodotto dal P.M. all’udienza del 16.10.2006).

In tale convenzione si dava atto, peraltro, dell’indagine già allora in corso da parte della “E.n.e.a.” su commissione del Ministero dell’Ambiente. Gli esiti dell’indagine verranno poi trasfusi, andando a costituire l’impalcatura tecnico-scientifica, nel D.P.R. del 23 aprile 1998, con il quale, richiamando le delibere del Consiglio dei Ministri del 30 novembre 1990 e del 1 luglio 1997, che avevano dichiarato e confermato il territorio della provincia di Taranto quale “area ad elevato rischio ambientale”, veniva approvato il “Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto”. Impossibile che le istituzioni, l’Ilva e i sindacati non conoscano quanto appena scritto. Semplicemente tutti, dal primo all’ultimo, hanno volutamente ignorato la realtà: l’Ilva per inseguire la logica del profitto a tutti i costi, istituzioni, sindacati e quant’altri per inseguire un qualcosa che si avvicina di molto alla parola potere.

Detto ciò, facciamo due calcoli. E un semplice ragionamento. Oggi l’Ilva ha una sola via di fuga: sperare che Appello o Cassazione, o entrambi, le riconsegnino in toto la facoltà d’uso degli impianti per tornare a produrre. Ciò le consentirebbe di evitare, nell’immediato, altre scelte. Che in parte sono state già fatte. Di cosa stiamo parlando? Di un qualcosa che abbiamo accennato da tempo, riproponendolo anche ieri, come sempre nel silenzio più totale. Il fatto che per il gruppo Riva, quello attuale e stante così le cose, è il momento migliore per vendere. Ciò consentirebbe al gruppo diverse cose: primo, evitare di investire somme inestimabili al momento, per effettuare tutti i lavori che occorrerebbero per rendere umana e non eco-compatibile, quell’azienda. Basti pensare solamente alle centinaia di milioni di euro che ci vorrebbero per spostare o coprire gli 80 ettari che costituiscono i parchi minerari.

Se pensiamo che l’Enel a Brindisi, per coprire due enormi carbonili (dalle dimensioni leggermente maggiori dei serbatoi dell’Eni) ha speso ben 200 milioni, il calcolo è presto detto. Per non parlare degli investimenti che ci vorrebbero per il reparto cokerie. Ma non certo per migliorarlo. Semplicemente per sostituirlo. Perché qui in troppi fanno finta di non sapere che le cokerie attualmente in uso, sono obsolete e molto, ma molto “vecchie”. Sulle cui batterie negli anni, sono stati apportati alcuni lavori, altri di manutenzioni altri di maggior costo e peso che però, nei fatti, non hanno cambiato né migliorato la situazione delle emissioni (si ricorda che la polvere nera che ricopre i Tamburi proviene proprio dalle cokerie).

Nonostante ciò, vendere ora, magari ad un competitor come la Cina, porterebbe comunque un guadagno: perché l’Ilva è ancora oggi il siderurgico più grande d’Europa e permetterebbe ai cinesi o a chi per loro di entrare a gambe tesa nel mercato europeo, che insieme a Brasile e India hanno iniziato a rincorrere da anni nel campo della siderurgia (un po’ come quello che sta avvenendo nel settore del voltaico con la scalata di due colossi cinesi alla Vestas e l’acquisto di uno stabilimento in Danimarca). Non solo. Vendere oggi vorrebbe dire non mettere un euro per la bonifica del territorio. Per non parlare del contenzioso del risarcimento danni che i tecnici del Comune e il sindaco Stefàno ancora non hanno depositato sotto il naso del gruppo Riva. Farlo fuori tempo massimo porterebbe ad una disputa legale infinita e inutile. E allora che si fa?

E allora ancora non si è capito che la magistratura ha fornito un assist unico e irripetibile alla città e all’attuale classe dirigente, per cogliere il momento e segnare una svolta storica per l’economia del territorio ionico e della città dei Due Mari. Farsi immediatamente risarcire il danno e chiudere l’area a caldo, segnerebbe l’inizio per la progettazione non solo del lungo processo delle bonifiche, ma soprattutto per pianificare immediate e reali alternative economiche. A cominciare dal recupero della mitilicoltura, proseguendo con la valorizzazione della filiera agroalimentare, passando per il sostegno e il recupero delle inestimabili bellezze del territorio per dar vita a quel turismo culturale che dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello.

Magari provando, per una sola volta nella vita, a guardare negli occhi Vendola e i colleghi baresi, ed imporre lo sviluppo del porto e dell’aeroporto: senza compromessi, senza se e senza ma. Spingere troppo nell’angolo una vecchia volpe come Emilio Riva, potrebbe rivelarsi un errore fatale. Finendo per regalare all’ingegnere dell’acciaio la via di fuga più semplice e logica. Invece di farsi ridare indietro sino all’ultimo centesimo guadagnato grazie al sudore e al dolore di migliaia di tarantini. Pensiamoci: siamo ancora in tempo per fermarlo.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 9 agosto 2012)

 

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